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human skills

Il leader del futuro
Fare carriera nel digitale

A lezione di Leadership da Michael Jordan

by Francesca Clivio 17 Luglio 2020
by Francesca Clivio

Alcune lezioni di Leadership che ho appreso dalla serie Netflix “The Last Dance”.

Ben 32292 punti, 6 volte campione NBA, 5 volte MVP della Regular Season e Difensore dell’Anno nella stagione 1987-1988, di chi sto parlando? Chiaramente di Michael Jeffrey Jordan, indiscutibilmente il giocatore che ha reso globale il basket americano negli anni ’90 e simbolo della storia della pallacanestro.

‘Mike’ ha vinto di nuovo trasformando in oro un prodotto che lo vede come protagonista: The Last Dance. Sono i numeri a confermarlo, all’incirca 5,6 milioni di telespettatori hanno visto i 10 episodi della docu-serie di ESPN in collaborazione con Netflix, rendendolo non solo il documentario più visto che la rete sportiva avesse mai trasmesso ma anche la serie più vista di sempre su Netflix dagli abbonati italiani. 

The Last Dance narra retroscena e dietro le quinte delle gesta dei Chicago Bulls e dei sei titoli NBA da loro conquistati (il famoso Three – peat). Si deve riconoscere che Jason Hehir, il regista, è riuscito a sfruttare al meglio il materiale a sua disposizione mescolandolo immagini di repertorio inedite e interviste contemporanee ai protagonisti. Il risultato infatti è un racconto di epica cestistica, di cultura pop e costume, ma soprattutto è godimento ed emozione. Forse è proprio questa la forza della serie: non si rivolge solo ai fanatici di Jordan, dei Bulls, o di basket ma a chiunque voglia comprendere come un mix inconsueto di talenti divenne un paradigma sublime che toccò uno dei picchi più alti dello sport, un fenomeno capace di superare le barriere sociali, demografiche ed addirittura le epoche. Non solo basket, ce lo dimostra in maniera brillante l’innegabile forza della natura che si chiama Michael Jordan. È impossibile non rimanere affascinati dalle sue mosse e dalle sue parole che ci portano a riconsiderare il tradizionale concetto di leadership per eccellenza. 

Ciò che è istruttivo di “The Last Dance” è il modo in cui mostra l’intero arco del viaggio per diventare un leader, dal guerriero solitario che crede di poter affrontare il mondo da solo, a un leader più vecchio e saggio, che si affida più alla durezza mentale che al puro atletismo, che si fida dei suoi compagni di squadra, e che sostiene lo spirito di squadra. 

Con questo articolo tenterò di andare oltre ciò che sapevano, oltre ciò che possiamo chiaramente vedere. Vorrei concentrarmi più su cosa significa guidare una squadra, formata da personalità differenti, verso un obiettivo preposto e su quali sono le caratteristiche che dovrebbe teoricamente avere un leader. 

Ecco cosa ho imparato nei 10 episodi di The Last Dance:

1. Se vuoi ottenere di più dal tuo team devi dedicargli la massima attenzione

lezioni di leadership

Prestare attenzione al proprio team è fondamentale per essere un buon leader, ciò significa ascoltare e trovare continuamente modi per connettersi con la propria squadra cercando di aiutarli verso il raggiungimento dell’obiettivo condiviso. Phil Jackson, il famoso coach dei Bulls, ha prestato infatti particolare attenzione alla personalità di MJ e al modo in cui “His Airness” (soprannome di MJ) interagisse in maniera aggressiva con i compagni di squadra e ha lavorato per instaurare un equilibrio naturale tra i compagni.

Phil Jackson non ha mai avuto timore di mettere in panchina MJ nel momento in cui superava i limiti. Phil sapeva che la leadership non riguardava solo saper assecondare il tuo miglior giocatore, bensì stabilire connessioni con ciascuno dei giocatori della tua squadra.

Come Jackson, tutti i leader dovrebbero chiedersi costantemente ”come posso aiutare questa squadra a crescere?” I profili dei leader più tradizionali si concentrano sulle loro capacità decisionali, sul carisma, sulla capacità di gestire con un pugno di ferro e di piegare gli eventi alla loro volontà, ma forse l’enfasi dovrebbe essere posta sulla loro capacità di galvanizzare e ispirare il team con cui collaborano.

È vero nello sport, come è vero nelle organizzazioni. Cos’è un maestro di livello mondiale senza la magistrale orchestra alle sue spalle?

2. La determinazione e l’impegno sono fondamentali

La serie ci mostra come più volte Jordan abbia giocato partite memorabili in condizioni incredibilmente dolorose. Ha giocato con l’influenza, ha giocato con un’intossicazione alimentare, e ha giocato con il dolore per il tragico omicidio di suo padre.

Ma in qualche modo, ha sempre scavato a fondo dentro di sé per trovare quella forza in più per portare lui e la sua squadra al traguardo. Un buon leader non deve fermarsi di fronte a nulla, deve continuamente trovare la forza di rialzarsi ed andare avanti. Ci saranno molti momenti nella nostra vita e nella nostra carriera in cui ci sentiremo come se avessimo il mondo contro di noi. È proprio in quei momenti che un buon leader è costretto ad attingere alle proprie riserve nascoste di resistenza e determinazione.

3. L’intelligenza emotiva

l'intelligenza emotiva della leadership

L’intelligenza emotiva è un concetto sfuggente e intangibile. 

Comunemente è definita come la capacità di comprendere e gestire le proprie emozioni, oltre che di riconoscere e influenzare le emozioni di chi ci circonda. Punto cardine dell’intelligenza emotiva è la consapevolezza di sé. Infatti per far emergere il meglio dagli altri, dovete prima tirare fuori il meglio da voi stessi. Ed è qui che l’Intelligenza Emotiva diventa un ingrediente essenziale di un buon leader. 

La serie ci mostra come per Jordan sia stato un lungo viaggio quello verso un’acuta consapevolezza di sé e un livello più alto di intelligenza emotiva. Lentamente ha iniziato a fidarsi di più dei suoi compagni di squadra, soprattutto nei momenti cruciali, come quando nelle finali NBA ‘97-‘98 passò la palla decisiva a Steve Kerr, che segnó il colpo vincente del campionato. 

La leadership è molto di più dell’insieme di capacità tecniche, per eccellere sono fondamentali anche qualità intangibili come l’empatia, la consapevolezza di sé, la compassione.

4. Decisione e responsabilità

Il grande MJ dice: “Una volta presa una decisione, non ci ho più pensato”. Infatti una delle caratteristiche che non può mai mancare in un leader è la capacità di saper prendere delle decisioni e assumersene la responsabilità. Nel corso della sua carriera Jordan ha messo a segno innumerevoli tiri vincenti che hanno deciso decine di partite cruciali e lo ha fatto prendendosi la palla quando la posta in gioco era davvero alta. Il suo istinto lo ha guidato, ed ha trainato la squadra, in maniera impeccabile. 

È proprio ciò che dovrebbe fare un vero leader. Nella vita di tutti i giorni, come nella carriera, ci saranno molti momenti critici che richiederanno delle decisioni rapide che potrebbero farci sprofondare come portarci verso il successo. La responsabilità è un diretto sottoprodotto della decisione, infatti ad ogni scelta corrisponde una conseguenza (per te e tutto il tuo team). Jordan, da buon leader, ha preso piena responsabilità delle sue azioni giocando in maniera determinata e guidando la squadra verso la vittoria.

 In alcuni episodi vediamo come ci siano stati match critici, in cui mancavano pilastri della squadra come Scottie Pippen o Dennis Rodman. Questa non è mai stata una scusa valida per MJ per perdere una partita o fare un passaggio sbagliato, perché prima di tutto chiedeva responsabilità a se stesso, poi a coloro che lo circondavano. 

5. Non esistono scorciatoie

“Sii fedele al gioco, e il gioco sarà fedele a te […]. Questo riguarda il basket, e in qualche modo anche la vita “– Michael Jordan

Non esistono scorciatoie nel basket, come nella vita e Jorda l’ha provato un milione di volte, con l’impegno e la dedizione che ci metteva. Ci si arriva solo attraverso un lungo viaggio, fatto di alte salite, discese vertiginose, molti ostacoli e lezioni inestimabili.

6. Trova ciò che ti motiva davvero

la leadership come elemento motivante

Diversi allenatori e giocatori hanno pensato che sarebbe stato intelligente utilizzare giochi mentali o provocazioni per indebolire ‘Mike’. Il risultato?

MJ prese ogni suo sentimento negativo e lo usò come benzina per alimentare il suo fuoco. Lui ha sempre scelto di far parlare il suo gioco e nient’altro. Per arrivare al successo è importante trovare le proprie micce che accendono il tuo fuoco. E’ importante trasformare ogni momento o sensazione negativa in benzina per andare avanti.

7. Sbagliando si impara

Uno dei detti più noti a tutti, ma non per questo meno vero. Infatti i leader dovrebbero vedere il fallimento come un momento di apprendimento. Le sconfitte sono inevitabili per chi si mette in gioco, ma la vera forza sta nell’analizzare e gestire il fallimento, per comprendere dove abbiamo sbagliato.

Per me, “The Last Dance” è stato molto più che una docu-serie, è stata una Masterclass di leadership. Una volta che si guarda oltre il titolo, ci accorgiamo che la serie mette in luce tutte le qualità essenziali per cui ci battiamo nella nostra vita personale e professionale. È una storia di ambizione, determinazione di ferro, impegno, eccellenza tattica e leadership ispiratrice. The Last Dance ci ricorda che la leadership non significa nulla se non vi è prima di tutto rispetto tra le parti.  The Last Dance è un elogio dello spirito di squadra e della diversità dei talenti. Ma soprattutto, è totalmente trasparente. Forse ho parlato troppo (come sempre), sei d’accordo con i punti che ho evidenziato o credi ci sia altro da aggiungere? Se ti va fammi sapere la tua opinione con un commento. 

Se ti appassiona la Leadership…

Ti consiglio la nostra Mind Hacking Academy, il percorso rivolto a manager, team e organizzazioni, volto ad allenare il nostro mindset, per gestire la resistenza al cambiamento e generare innovazione sostenibile nel tempo.

17 Luglio 2020 6 commenti
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Formula 1 e lezioni di Team Management

by Edoardo Montesano 19 Giugno 2020
by Edoardo Montesano

Lezioni di Team Management che ho appreso dalla serie Netflix F1: Drive to Survive. Scopriamole in questo articolo.

Non mi piace la Formula 1, mai seguita.

Credo però che le grandi opere, letterarie, cinematografiche o televisive, possono essere definite tali quando riescono ad uscire dal loro genere: i batman di Nolan non sono solo dei film su di un supereroe, il Signore degli Anelli non è solo un film fantasy e F1: DRIVE TO SURVIVE non è solo un documentario sulla Formula 1. 

Non penso di essere l’unico a dirlo, ma Netflix negli ultimi anni ha portato il genere dei documentari ad un altro livello, dalla cucina, allo sport, fino al reportage, questo format è diventato uno dei cavalli di battaglia del servizio di streaming più famoso al mondo ed F1: DRIVE TO SURVIVE, entra a pieno diritto tra i titoli più belli e intriganti che ho visto su questa piattaforma. 

Nello specifico stiamo parlando di una docuserie, dove ogni stagione si espande per l’intera durata del Gran Prix (ad oggi campionato 2018 – 2019 e 2020 in produzione, Covid permettendo) e dove ogni episodio è focalizzato su una delle scuderie concorrenti o su di un certo personaggio all’interno di quella scuderia. 

Durante la prima stagione i team che hanno firmato il contratto con Netflix erano quelli più piccoli, che possiamo definire un pò come delle “startup della F1” per la loro propensione a mettersi in gioco e alla sperimentazione. 

La Formula 1 è un ambiente brutale, dove può succedere che un ragazzino di 19 anni pianga a dirotto dentro una macchina sparata a 350 km orari, perché sa che le sue performance stanno calando a causa delle pressioni spaventose che ha da parte della scuderia e dei media. 

Per questa ragione è facile intuire che molti team potevano avere delle serie riserve a consentire ad una squadra di cameramen di seguirli giorno e notte e in qualsiasi situazione, come avviene nella serie.  Poi la prima stagione è uscita, è stata un gran successo e allora sono saltati a bordo anche i big, Mercedes Petronas, Ferrari, McLaren…ecc, certi ormai della riuscita del format. 

Cosa ho capito della Formula 1 grazie a questa serie? 

Prendiamo ad esempio i più vincenti di tutti: Mercedes Petronas. 

Si tratta di un team itinerante di 1500 persone, che ha un solo obiettivo: “Let’s crush them” come dice il loro team principal Toto Wolff. 

Se ci concentriamo su questo caso, il più lampante ma è valido per tutti, è facile comprendere come in Formula 1 ogni scuderia è un’impresa che lavora alla realizzazione di un prodotto il più performante possibile, in un ambiente di estrema incertezza, con una pressione psico-fisica enorme e dove l’ottimizzazione dei processi è la chiave del successo. 

Il pilota in questo sport ha un duplice ruolo: egli è infatti contemporaneamente prodotto e membro del team. Nel suo ruolo di prodotto il pilota diventa interamente assimilabile all’auto che guida, un tutt’uno, e il compito della squadra è quello di consentirgli di arrivare al giorno della gara nella migliore condizione possibile. 

Come membro del team egli riveste invece il ruolo del prototyper: ogni gara è un test da cui si possono dedurre dei dati e il suo compito è quello di spingere al massimo il mezzo e riportare i dati qualitativi, quali il feeling con l’auto e con le ultime modifiche apportate. Sì, non lo sapevo, ma la macchina è un prodotto vivo, che viene modificato e ottimizzato ad ogni gara. 

Durante la serie, infatti, si vedono spesso questi meeting interminabili dove analisti, meccanici, team principal e piloti, riguardano la gara precedente, analizzano grafici illeggibili, condividono le loro impressioni e si scambiano idee. 

Quali lezioni possiamo portarci a casa dalla Formula 1?

La serie è popolata di personaggi interessanti, carismatici, divertenti e drammatici, ma per questo articolo e per le sue finalità proseguirò nell’utilizzare l’esempio di Mercedes Petronas. 

Perché? Sono i migliori. Vediamo che hanno da insegnarci.

La Leadership come processo a cascata

La leadership come processo a cascata
Niki, Lewis & Toto

Qualche anno fa Mercedes era una squadra relegata agli ultimi posti in classifica, finché non ha intrapreso un drastico cambio di direzione che le ha consentito di vincere la bellezza di sei Gran Prix consecutivi. Questo inversione di marcia aveva un nome e si chiamava Niki Lauda. 

Anche io che so poco o nulla di Formula 1 conosco ovviamente il personaggio, che al pari delle grandi opere, era di una portata tale da spiccare al di fuori del contesto in cui era inserito. Larger than life come dicono gli americani, un termine che mi piace molto. 

L’arrivo di Niki innesca inevitabilmente un processo a cascata che ha come conseguenza quella di attirare a sé altre figure speciali, fuori dall’ordinario. 

Prima tra tutte Lewis Hamilton, considerato oggi il miglior pilota di sempre, nella serie dichiara senza mezzi termini: “Se Niki non mi avesse chiamato personalmente, non sarei venuto in Mercedes”. 

Secondo, ma non per importanza, Toto Wolff, tutt’ora il Team Principal di Mercedes. Toto è un autentico squalo, con le mani in pasta dappertutto, un fiuto incredibile e delle doti da leader eccezionali, che gli consentono di comprendere quali sono le persone migliori di cui circondarsi a sua volta. 

La leadership, come insegnamo anche nella nostra Mind Hacking Academy, ha un ruolo fondamentale, perché attira a sua a volta altra leadership ed espande la sua influenza sul resto del team, che migliora e cresce come risposta adattiva alla sua forza trascinante. 

La responsabilità condivisa – We win and we lose together

strategie di team management
Mercedes ai pit stop

Durante uno degli episodi Mercedes affronta una gara disastrosa, Lewis viene speronato ed è costretto a fermarsi ai pit stop, d’urgenza e in un momento che non era stato previsto dal resto della squadra. In genere, e come ho imparato sempre nella serie, il tempo di sosta medio ai box in Formula 1 è di 1,5 sec, ma in quel caso ci impiegano la bellezza di 57 secondi a rimettere la macchina in pista. Una gara da dimenticare. 

Una cosa che mi è piaciuta molto dopo questo insuccesso è il commento di Toto “Lavoreremo insieme per capire cos’è andato storto, non ce la prendiamo con nessuno del team perché in questa azienda abbiamo una politica di responsabilità condivisa”. Te l’ho parafrasata un pò, ma la solfa era questa.

A Lacerba non siamo 1500, ma crediamo nello stesso approccio, dove ogni membro del team è empowered dal fatto che è parte integrante di tutti i processi decisionali che vengono presi e ha una visione in tempo reale di come sta performando l’azienda – We win and we lose together.  (se ti interessa saperne di più di come organizziamo il nostro lavoro ne ho parlato nel dettaglio in un altro articolo, sempre su questo blog.)

Le persone prima dei processi

il team è la vera forza
Foto di gruppo, con Toto che tiene fra le mani il cappellino di Niki, defunto recentemente.

In ambito Digital sento spesso parlare di ottimizzazioni dei processi, ma si dimentica volentieri le persone, o più che altro le si da per scontate. In Formula 1 l’ottimizzazione dei processi è fondamentale, tutto è un ingranaggio perfettamente oleato che deve performare al meglio, in frazioni di secondo. Ma come ci riescono? 

Il team, il team è tutto: preparato, formato, responsabilizzato e partecipe.

I corsi che ti consigliamo

Se ti intera la gestione aziendale, la leadership e l’organizzazione del team ti consiglio di visitare la Mind Hacking Academy, la nuova area sul sito di Lacerba pensata per affrontare il cambiamento e guidare la tua azienda verso la Digital Transformation. All’interno troverai corsi Leadership Adattiva, future studies e molto altro.

19 Giugno 2020 0 commenti
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Il Mindset per affrontare il cambiamento

by Barbara Galiazzo 16 Giugno 2020
by Barbara Galiazzo

Scopri un nuovo Framework attraverso cui allenare il tuo Mindset al cambiamento.

Qualche tempo fa vi ho raccontato un fenomeno che il Team Lacerba sta studiando da un anno ormai: la Digital Transformation e il suo “lato umano” e culturale (questo il link dell’articolo precedente se te lo sei perso). La Digital Transformation di per sé non è certo una novità, ma abbiamo voluto comunque ragionarci per capire come la stanno vivendo, al di là della comunicazione di facciata, le aziende con cui lavoriamo.

Bisogna prima individuare il problema alla base

Un aspetto che ci è stato subito chiaro è come questo fenomeno non stia impattando solo il lavoro delle persone, ma anche il loro modo di vivere al di fuori dell’azienda. Il confine tra interno ed esterno le organizzazioni in cui lavoriamo è diventato sempre più sfumato e così, mentre le routine giornaliere si accavallano, molti corrono verso lo scopo comune di “stare al passo”. Per questo pochi si rendono conto di quanto sarebbe più saggio focalizzarsi su meno obiettivi per riuscire a mantenere sempre uno sguardo attivo e curioso al futuro, piuttosto che rincorrere il presente.

Noi questo lo notiamo spesso, assistendo e indirizzando tanti studenti che hanno sì fame di imparare nuove competenze, ma lo fanno senza una reale comprensione del perché queste skills possano essere fondamentali per il loro sviluppo personale. Senza un Perché chiaro, come in tutte le decisioni che prendiamo durante la vita, è difficile rendere effettiva la nostra crescita nel medio periodo. Se di per sé questa fame è positiva, è quindi altrettanto evidente il bisogno di modificare l’approccio con cui cerchiamo di “saziarla”.

Dovremmo diventare capaci di applicare il cosiddetto “Golden Cricle” di Simon Sinek anche all’apprendimento, ovvero applicare il ciclo: Perché – Come – Cosa. Invece del contrario, come molti fanno: come – perché, con tutti i limiti del caso.

il mindset per affrontare il cambiamento
Lo schema del Golden Circle di Sinek

E questo non ha nulla a che vedere con la tecnologia, ma solo con il nostro “mindset”, che non è né analogico né digitale, ma è dinamico e va compreso per imparare a guardare al futuro, a plasmarlo. Quindi mettiamo per ora da parte il digital, che in fin dei conti è solo un mezzo, e concentriamoci sul nostro mindset per capire perché è così importante, soprattutto in questa fase storica.

Perché è importante parlare di Mindset? E perché è così difficile comprenderlo?

Il Mindset è un altro di quei mantra che girano nelle organizzazioni, ma a cui dare veramente un senso univoco risulta spesso complesso. A dir la verità anche noi abbiamo speso parecchie ore di brainstorming e studio prima di arrivare a un punto di vista comune. Partiamo quindi dall’inquadrarne le caratteristiche di base.

Il mindset è il ponte tra la nostra sfera cognitiva e quella comportamentale. In poche parole, è ciò che collega quello che sappiamo, le nostre competenze (la parte cognitiva) a come le applichiamo nei confronti del mondo esterno (la parte comportamentale). Agire sul mindset significa quindi andare ad agire sul modo di comportarci, di attivare le nostre competenze, di fronteggiare le diverse situazioni (come il reagire alla trasformazione digitale, ad esempio, ma anche più semplicemente come il risolvere un problema sul lavoro).

Non è però semplice formare nel tempo “un giusto mindset”. Non esiste infatti un modo di comportarci che risulterà corretto in ogni situazione, come non ne esiste uno sempre e solamente sbagliato, uno totalmente buono o totalmente cattivo. E di conseguenza non esiste un mindset univoco, specialmente in un mondo che, come dicevamo prima, cambia continuamente.

E quindi? Cosa fare in questo “moto perpetuo” fatto di cambiamento continuo?

La risposta ci è sembrata chiara nel momento in cui abbiamo ribaltato la prospettiva comune: non dobbiamo insegnare un nuovo mindset, ma dobbiamo insegnare come allenare il proprio mindset al cambiamento.

La differenza è sostanziale. In un contesto così mutevole la migliore strategia da percorrere non è quella di adattarsi allo scenario del momento, ma piuttosto quella di allenare più in generale le nostra capacità di problem solving, di adattamento, di flessibilità ai nuovi scenari. Se vogliamo iniziare a correre, invece di rincorrere, dobbiamo essere parte del cambiamento, avere un mindset altrettanto mutevole e plasmabile.

Ora, essendo di per sè il mindset un concetto complesso, complesso è anche il suo modo di de-formarsi in modo “plastico” per ri-formarsi continuamente. Per questo abbiamo costruito un framework che, scomponendo la trasformazione in tutti i suoi pezzi, ci aiuti a inquadrare un vero e proprio allenamento, un percorso, composto sia da concetti utili ad alimentare la parte cognitiva del mindset, sia di strumenti, esercizi e casi pratici, per comprendere come applicare nel concreto quanto appreso.

Un percorso che abbiamo costruito in modalità “Hacking”, parola spesso usata nel mondo startup e che ora come non mai ci sembra adatta a descrivere la strategia da seguire: una strategia incentrata, come nel coding, sul riprogrammare continuamente quanto sviluppato, alla ricerca di soluzioni più efficienti.

Questa volta però lo faremo per imparare come riprogrammare velocemente e costantemente il nostro codice mentale, per renderlo migliore e adattivo.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il Mindset

come allenare il mindset
I cicli iterativi si pongono alla base dell’innovazione

Ogni volta che ci troviamo di fronte ad un cambiamento e ad una situazione nuova, che sia questo relativo al digitale o meno, abbiamo sempre a che fare con questi aspetti del mindset, guidati dalla componente cognitiva o comportamentale:

  • Differenziazione: ampliamento della nostra conoscenza, che ci consente di avere gli elementi per comprendere il nuovo.
  • Integrazione della nuova conoscenza appresa nei nostri comportamenti quotidiani, nelle nostre scelte e applicazione concreta della conoscenza, anche dopo aver acquisito senso critico e consapevolezza.
  • Accettazione / rifiuto dei nuovi comportamenti e conoscenze apprese.

Scomporre questi aspetti ci ha consentito di costruire un framework che potesse andare ad allenare e rispondere ai meccanismi di risposta del mindset.

Il Manifesto del percorso della Mind-Hacking Academy

Quando abbiamo iniziato a ragionare sul percorso insieme a Valentina De Matteo, strategic designer e coordinatrice del percorso, siamo partiti da alcuni principi “identitari” che ci hanno guidato nella definizione del suo proposito e delle modalità di trasferimento di conoscenze, pratiche e metodi più efficaci al raggiungimento dell’obiettivo di allenamento e programmazione continua del nostro mindset. Questi sono i punti chiave su cui abbiamo fondato il nostro lavoro:

  • Crediamo che non esista un mindset analogico e uno digitale. Crediamo esista un mindset e non sia mai definitivo. Non essendo definitivo, possiamo allenarlo a cambiare velocemente, a rispondere proattivamente ai cambiamenti in corso e che verranno. 
  • Allenare il mindset in modalità “Hacking”, significa sviluppare la capacità di far uso di creatività e immaginazione in qualunque situazione, e in particolare nella soluzione di un problema e di una situazione di cambiamento e novità.
  • Il Mindset come leva della trasformazione e dell’innovazione. Il nostro è un percorso pensato per allenare il mindset a innovare a 360°, dentro e fuori dall’azienda, e quindi a rispondere non solo alla trasformazione digitale, ma a tutte le trasformazioni che verranno. Lavorare sul mindset significa lavorare sulla differenza tra il dire e il fare innovazione, tra essere spettatori e anticipatori del cambiamento. Essere allenati ad interpretare la trasformazione ci permette di capire quando questa rappresenti una reale opportunità, e quindi quando e quanto investire in essa per generare innovazioni sostenibili e positive per il nostro ecosistema.
  • La Mind-Hacking Academy è un percorso pensato per noi e per chi ci sta attorno. L’Academy è un percorso trasversale, creativo ed efficace, pensato per tutti e con un grande potere di influenzare positivamente e fertilizzare l’ambiente che ci circonda, il nostro Team e la nostra realtà lavorativa..

Qualche spoiler sull’Academy

Il Framework che abbiamo costruito e che fa da base all’academy si poggia su quattro elementi/esigenze che definiscono la bussola della trasformazione, intesa come innovazione.

Digital Transformation e come affrontarla
Le variabili del Framework
  • Competenze: Come valutare lo «skill capital» mio, del mio team e della mia organizzazione? Quali competenze esistenti irrobustire e come far emergere quelle potenziali?
  • Comportamenti: Come preparare se stessi, il proprio team e la propria organizzazione a imparare ad imparare e trasformarsi costantemente?
  • Strumenti: Quali strumenti – non solo digitali – mettere in campo per superare e anticipare le prove del cambiamento?
  • Organizzazione: Come uscire dalle forme organizzative tradizionali per scegliere assetti più agili, responsivi, adattivi e funzionali agli obiettivi?

Dall’incrocio di questi 4 elementi, ne derivano i quattro moduli della Mind-Hacking Academy che rispondono a domande diverse:

Digital Mindset per il cambiamento
Il Framework Lacerba, così come appare anche sul nostro sito.
  • C2 (Creativity x Collaboration) Mindset : Come allenare il processo di creatività e innovazione e renderlo sistemico all’interno di del mio Team / della mia organizzazione?
  • Adaptive Mindset: Come allenarsi al cambiamento organizzativo continuo? Come riconoscere il proprio modello e imparare a innovarlo in maniera efficace?
  • Abundance Mindset: Come farsi promotore di innovazione guardando al di fuori dalla propria zona di confort e fertilizzare positivamente il proprio ambiente di lavoro?
  • Design Mindset: Come rendere sistemico il processo di innovazione nei processi di creazione interni e per la creazione di valore per i propri clienti?

Andremo via via a svelare come si componga il programma di allenamento di ognuno di questi quattro quadranti, che puoi già esplorare alla pagina della Mind Hacking Academy. Per approfondire ulteriormente ti consiglio anche di vedere il webinar di presentazione dell’Academy che abbiamo fatto insieme alla coordinatrice del corso: Valentina De Matteo.

Ma prima di lasciarti, vorrei porti una domanda: in quale di questi aspetti ti senti meno pronto al cambiamento? Dove ti senti in forma, e dove invece sei fuori allenamento? Fammelo sapere con un commento sotto questo articolo!

To be continued…

16 Giugno 2020 0 commenti
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