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Fare carriera nel digitale

Lacerba certificata iso 9001
Fare carriera nel digitale

La promessa di continuare ad innovarsi

by Edoardo Montesano 21 Marzo 2021
by Edoardo Montesano

Cosa significa essere certificati ISO 9001, perché è così importante per noi avere questa certificazione e come abbiamo fatto per prenderla

In questo articolo riporto una chiacchierata molto interessante che ho fatto con la mia collega Barbara, in merito alla certificazione ISO 9001:2015. 

Da profano avevo solo una vaga idea di cosa fosse la certificazione ISO 9001.

 “La qualità di Lacerba è certificata da Bureau Veritas ISO 9001:2015 per progettazione, produzione ed erogazione di corsi di formazione e-learning su materie digitali e di innovazione.” 

Questa è la frase che trovi in fondo al nostro sito e se per te è sufficiente allora tanto basta.

Ma ottenere una certificazione ISO 9001 ha delle implicazioni strategiche e operative per un’azienda. Come anche io ho scoperto, è qualcosa che ti porta a fare un’analisi di chi sei, a capire cosa ti manca e a porti degli obiettivi per il futuro. 

Barbara, instructional designer e business developer qui a Lacerba, ha curato il processo attraverso cui abbiamo ottenuto la certificazione ISO 9001. 

Ti riporto in questo articolo cosa mi ha raccontato in merito e perché questa certificazione non è solo un attestato di qualità, ma una promessa di continuare a migliorarsi e innovarsi. 

Spero che l’articolo ti ti sia utile e se alla fine vuoi lasciarci un commento ci fa sempre piacere. Buona lettura! 

Ma cos’è una certificazione ISO 9001? 

Ci sono infinite ISO, con diverse finalità. Nel caso della ISO 9001:2015, si tratta di una certificazione che attesta che un’azienda metta in atto tutti i sistemi di controllo necessari a garantire la qualità del suo prodotto, in ogni fase del processo di sviluppo. 

Ma la ISO 9001 ha anche un altro obiettivo: quello di far sì che l’azienda sia orientata al miglioramento continuo. Non lo sapevo, ma la certificazione deve essere rinnovata ogni anno e per conseguirla e mantenerla serve impostare un piano di crescita e miglioramento.

Bisogna, dunque, porsi di anno in anno degli obiettivi formali, che devono essere rispettati affinché la certificazione venga rinnovata. 

Questo è forse l’elemento che più ci intriga della ISO 9001 e che più rispecchia la nostra cultura a Lacerba. Il tema del miglioramento e dell’innovazione continua ci sta molto a cuore ed è una spinta che sentiamo ogni giorno nel nostro lavoro. 

Cosa abbiamo fatto per ottenere la ISO 9001?

Lato prodotto, i nostri corsi, abbiamo dovuto dare dimostrazione di come avviene la progettazione e lo sviluppo di un contenuto formativo a Lacerba. 

Per farlo abbiamo preso una delle nostre masterclass e ne abbiamo ripercorso l’intero processo di realizzazione: dalla prima mail col docente, alla messa a terra della scaletta, le successive revisioni del programma, per passare poi alle fasi di registrazione, editing e montaggio, fino alla messa sul mercato, la comunicazione e la trasparenza con il cliente. 

Per ognuno di questi diversi momenti abbiamo dovuto darne prova tangibile, ovviamente. 

Un altro aspetto importante è stato quello di dare evidenza della professionalità e competenza dei nostri docenti, fornendo i Curriculum Vitae e i riferimenti dei loro lavori e progetti di maggior rilievo. 

Lato obiettivi futuri da conseguire, è stato realizzato ad hoc un organigramma completo di Lacerba ed è stata fatta una mappatura delle nostre competenze, di quelle che abbiamo e di quelle che ancora ci mancano. A partire da questa autoanalisi abbiamo impostato degli obiettivi di miglioramento, che dovranno essere conseguiti entro il prossimo anno.  

Insomma… È stato un lavoro impegnativo! 

Qualche consiglio per prendere la certificazione

Non voglio però scoraggiarti, se per caso stai leggendo questo articolo con l’intento di ottenere anche tu la certificazione ISO 9001. 

È vero, si tratta di un processo complesso, ma è davvero un percorso formativo, da cui tu e la tua azienda uscirete più maturi e consapevoli.

Senza contare che la parte più difficile è ottenerla la prima volta, mentre per gli anni successivi il tutto dovrebbe essere un pò più snello. 

I corsi che ti consigliamo

Se il tema del miglioramento e dell’innovazione ti sta a cuore, su Lacerba abbiamo alcuni corsi che hanno ispirato anche a noi, come team, al miglioramento continuo, aiutandoci ad organizzarci meglio, allenare il nostro mindset e generare innovazione in squadra. 

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21 Marzo 2021 0 commenti
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Differenza copywriter Digital Copywriter
Fare carriera nel digitale

Da copywriter a digital copywriter: cosa è cambiato?

by Davide Bertozzi 22 Febbraio 2021
by Davide Bertozzi

Come accogliere il cambiamento e prepararsi alle nuove sfide delle aziende, da copywriter

Scrivere è complicato. Se così non fosse non esisterebbero persone che scrivono per mestiere. Non esisterebbero i copywriter, per dire. Questi ultimi mettono la loro penna e la loro tastiera al servizio del mondo pubblicitario; niente romanzi insomma, al massimo saggi e manuali, ma principalmente mettono nero su bianco gli obiettivi delle aziende. E allora scrivono di prodotti, marche, persone, e ne scrivono in tanti modi, contesti e canali. Radio, TV, riviste, siti web, social media, brochure e altre diavolerie analogiche e digitali. Soprattutto digitali, oggi.

La cosa davvero bella di questo mestiere è che si reinventa e rinnova insieme alle tecnologie, ai cambiamenti sociali, alle tendenze e alle necessità di ogni momento storico. Certo, il mestiere è pur sempre quello, scrivere, ma a cambiare con una certa frequenza è l’intenzione, l’attitudine, l’obiettivo. Giusto per farti un’idea, lavoro come copywriter da dieci anni e accidenti quante cose ho visto e quante volte ho dovuto adattare il mio scrivere. Adattare a cosa? Al cambiamento. Mi spiego.

La rivoluzione digitale nel copywriting

Ho avuto la fortuna di vivere la rivoluzione digitale, un vero ciclone, e questo ha determinato un netto strappo rispetto al romanticismo della cara vecchia carta (a cui rimango ancora fortemente ancorato). Il digitale ha accorciato ogni distanza, reso il mondo un posto più piccolo, e ha portato nel nostro paese tutte le informazioni dei grandi brand mondiali. E per grandi intendo quelli grandi-grandi-grandi. Indubbiamente questo ci ha influenzato, e molti hanno iniziato a correre per recuperare un gap immaginario. E sono arrivate qui da noi le “parole americane”, come purpose e storytelling, che anni fa si trovavano scritte ripetutamente sui brief di progetto. Sembravano bagliori, stelle luminose che rendevano ogni lavoro più eccitante ed emozionante. Stava nascendo una nuova consapevolezza, una nuova dimensione della marca e del fare comunicazione.

Ci abbiamo messo poco tempo ad imparare che tutto questo non era una moda del momento ma un’inversione di marcia capace di avvicinare moralmente le aziende alle persone e le persone alle aziende. Un nuovo cambiamento, anche romantico, se vogliamo. Ma è business, è lavoro, è comunicazione pubblicitaria, e noi professionisti abbiamo il compito di accoglierlo e studiarlo, impararlo e metterlo in pratica (con etica).

Io l’ho fatto, e confesso che è stato eccitante, motivante e gratificante come poche altre esperienze. Mi annoio facilmente negli ambienti in cui mancano l’attitudine allo studio e la voglia di raccontare grandi storie. Ecco perché ho deciso di mettere la mia penna e la mia tastiera al servizio delle aziende che vogliono comunicare meglio, con creatività e consapevolezza.

Il cambiamento è una costante del mestiere. Ed è anche il suo aspetto più intrigante. Sai che noia avere le giornate tutte uguali. Il cambiamento, come la creatività, scavalca le barriere della noia e ci porta lontano, professionalmente, personalmente e chissà in quanti altri modi. Il cambiamento affianca una parola recente, come digital, ad una relativamente antica, appartenente al mondo analogico: copywriter.

Da copywriter a digital copywriter

Mi piace pensare che tra copywriter e digital copywriter non ci sia poi quella gran differenza, ma quella parolina, “digital”, qualche cosa l’ha cambiata nel nostro mestiere. Mi spiego meglio. Il palcoscenico su cui ci muoviamo oggi noi (digital) copywirter è ancora più isterico e competitivo rispetto a quello di 10 anni fa… Ma che dico, rispetto all’anno scorso basterebbe!

Le deadline si sono accorciate, ma al contempo dobbiamo essere capaci di produrre sempre più materiale, di catturare l’attenzione del nostro lettore in un tempo sempre più breve e di rispondere alle sue domande con precisione chirurgica. Perché alla fine il nostro mestiere è questo: catturare l’attenzione delle persone e rispondere alle loro domande, anche quelle che ancora non sanno di avere.

L’altra cosa che è cambiata sono gli infiniti ambiti di specializzazione dei copywriter, anche se una base comune ci deve sempre essere: quella di scrivere per il lettore. Sembra banale, ma fidati, se ti stai approcciando a questo mondo scoprirai presto che non è così. Social, pagine prodotto, blog post, buone vecchie brochure e chi più ne ha più ne metta. Come ti dicevo, esistono infiniti contesti in cui una persona ci può leggere oggi nel digitale, ed ognuno di questi richiede competenze e approcci diversi.

Alcuni copywriter si specializzano nella SEO, per lavorare alla stesura di landing page persuasive, altri si occupano di email marketing, c’è chi scrive per i blog e chi invece si occupa di comunicazione pubblicitaria e narrazione di brand, come me.

Se ti appassiona questo ambito qui su Lacerba trovi il percorso di Brand Storytelling e Digital Copywriting a cui ho partecipato insieme ad alcuni strepitosi professionisti della comunicazione e della narrazione d’impresa.

( Se vuoi saperne di più, qui trovi il webinar in cui abbiamo presentato il programma del percorso insieme a tutta la faculty. )

Se desideri mettere la tua tastiera al servizio delle aziende, che poi significa metterla al servizio della cultura, beh, questo è il corso che fa per te. Le grandi storie hanno bisogno di mani capaci, di competenze e creatività, hanno bisogno di persone che sanno fare storytelling senza cadere in soluzioni banali, già viste e inefficaci. Qui entra in gioco il mestiere del digital copywriter, mai semplice e sempre diverso, ma sono qui per raccontartelo. Sei pronto/a?

22 Febbraio 2021 0 commenti
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Chief Storyteller
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Chi è il Chief Storyteller e qual è il suo ruolo in azienda?

by Andrea Bettini 25 Settembre 2020
by Andrea Bettini

Scopri di cosa si occupa il Chief Storyteller e perché è una figura essenziale anche per le piccole e medie imprese.

Se sai chi è Steve Clayton sei già su una buona strada. Se così non fosse non è un problema. Te lo presentiamo noi e soprattutto ti spieghiamo perché c’è bisogno di figure come la sua nelle tante piccole e medie imprese italiane.

Steve Clayton non è il nuovo playmaker dei Los Angeles Lakers. Steve Clayton non è nemmeno il quarterback dei New England Patriots. Steve Clayton invece è il Chief Storyteller e Responsabile del team Immagine e Cultura di Microsoft. Qual è il suo compito? Come lui stesso dice: “Io insieme al mio gruppo di lavoro, ci occupiamo di raccontare Microsoft, non di vendere prodotti”.

Steve Clayton al Ted Talk di Liverpool

Perché è interessante e soprattutto è utile una funzione come quella di Clayton? Per una serie di motivi che abbiamo cercato di sintetizzare in cinque punti.

1.Le imprese sono storie.

Un’impresa non nasce solo per fare cose e/o servizi. Un’impresa ha un motivo molto più profondo che spesso ci cela nel desiderio del suo fondatore, ma che poi diventa di proprietà anche in coloro che l’impresa la portano avanti in quello che viene definito processo evolutivo. Il lasciare un segno tangibile della propria esistenza terrena, può essere uno dei buoni motivi che spinge un’organizzazione a costituirsi. Motivo che poi viene sostenuto quotidianamente da un lavoro ben fatto e una passione che ne alimenta le singole azioni. Bene, questo va raccontato. Va raccontato in maniera coerente. Va condiviso con tutti gli stakeholders di un’impresa. Il Chief Storyteller si occupa di questo.

2.Un’impresa oggi deve essere attrattiva

Se “la differenza la fanno le persone” è un assioma ancora oggi valido, significa che un’impresa deve riuscire ad attrarre persone in gamba e in grado di apportare il proprio contributo allo sviluppo dell’impresa stessa. Per aiutare in questo e per far sì che soprattutto giovani talenti, abituati a repentini cambiamenti, diventino protagonisti attivi di questo processo, è necessario riuscire a trasferire in maniera efficace il perché anche un nuovo arrivato può essere fin da subito protagonista di questa storia imprenditoriale. Il Chief Storyteller si occupa di questo.

3.Verso un’impresa empatica.

Quando parliamo di narrazione non si può non far riferimento al concetto di empatia. L’empatia è alla base del racconto. L’empatia è alla base delle emozioni. Se un’impresa riesce ad agganciare emotivamente il suo pubblico, non avrà più consumatori, ma sostenitori. È un cambio di paradigma, ma mai come oggi questo diventa fondamentale soprattutto verso le nuove generazioni di clientela. Un’impresa empatica è quella che riesce a trasferire quello che c’è oltre a un logo. La capacità di andare in profondità del proprio essere e trasferire il proprio sistema valoriale. Il Chief Storyteller si occupa di questo.

4. L’identità di un’impresa non è da dare per scontata.

Siamo passati dall’era del sottocosto a quella della qualità garantita. In tutto ciò spesso viè l’utilizzo non sempre appropriato di un tricolore italico garante di un Made in Italy, più sventolato che realmente interpretato. Ma se oggi la qualità viene data per scontata e il Made in Italy è il nostro brand di un’eccellenza nel fare le cose, non è sufficiente proclamarsi paladini della qualità assoluta e custodi di un’eredità artistica. Occorre trasferire l’effettiva identità che c’è dietro ad ogni singola impresa. Un’identità fatta di diversi elementi: persone, territorio, tradizione e cultura nel fare impresa. Il Chief Storyteller si occupa di questo.

5. Sentirsi parte di una storia comune.

È un po’ la chiusura del cerchio. Riprendendo il primo punto è la circolarità del racconto. La narrazione non va imposta. La narrazione richiede ascolto e rispetto. Una buona narrazione si basa sulla fiducia. Una narrazione efficace è solo ed esclusivamente quella che è in grado di trasferire in maniera coerente l’anima di un’impresa. Solo così non ci può essere manipolazione, ma espressione naturale di ciò che si è. Solo così tutte le persone appartenenti ad un’impresa possono ritenersi parte di una storia comune. Il Chief Storyteller si occupa di questo.

Perché ci auspichiamo che ci possano essere tanti Steve Clayton anche nelle piccole e medie imprese italiane? Perché vorrebbe dire che il cambiamento intrapreso nel fare impresa ha colto l’importanza nel dialogare con le proprie persone. Dove vengono meno le classificazione tra B2B e B2C, ma si ragiona in un’ottica di H2H Human To Human.

Prima di salutarci…

Se t’interessa saperne di più di come si può diventare un Chief Storyteller o se vuoi migliorare le tue competenze di Designer all’interno di un’impresa narrativa, ti consiglio di dare un’occhiata al nuovo percorso online in Brand Storytelling e Digital Copywriting di Lacerba e di cui sono uno dei docenti insieme a Francesco Gavatorta, Davide Bertozzi e Alberto Maestri.

25 Settembre 2020 0 commenti
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Il leader del futuro
Fare carriera nel digitale

A lezione di Leadership da Michael Jordan

by Francesca Clivio 17 Luglio 2020
by Francesca Clivio

Alcune lezioni di Leadership che ho appreso dalla serie Netflix “The Last Dance”.

Ben 32292 punti, 6 volte campione NBA, 5 volte MVP della Regular Season e Difensore dell’Anno nella stagione 1987-1988, di chi sto parlando? Chiaramente di Michael Jeffrey Jordan, indiscutibilmente il giocatore che ha reso globale il basket americano negli anni ’90 e simbolo della storia della pallacanestro.

‘Mike’ ha vinto di nuovo trasformando in oro un prodotto che lo vede come protagonista: The Last Dance. Sono i numeri a confermarlo, all’incirca 5,6 milioni di telespettatori hanno visto i 10 episodi della docu-serie di ESPN in collaborazione con Netflix, rendendolo non solo il documentario più visto che la rete sportiva avesse mai trasmesso ma anche la serie più vista di sempre su Netflix dagli abbonati italiani. 

The Last Dance narra retroscena e dietro le quinte delle gesta dei Chicago Bulls e dei sei titoli NBA da loro conquistati (il famoso Three – peat). Si deve riconoscere che Jason Hehir, il regista, è riuscito a sfruttare al meglio il materiale a sua disposizione mescolandolo immagini di repertorio inedite e interviste contemporanee ai protagonisti. Il risultato infatti è un racconto di epica cestistica, di cultura pop e costume, ma soprattutto è godimento ed emozione. Forse è proprio questa la forza della serie: non si rivolge solo ai fanatici di Jordan, dei Bulls, o di basket ma a chiunque voglia comprendere come un mix inconsueto di talenti divenne un paradigma sublime che toccò uno dei picchi più alti dello sport, un fenomeno capace di superare le barriere sociali, demografiche ed addirittura le epoche. Non solo basket, ce lo dimostra in maniera brillante l’innegabile forza della natura che si chiama Michael Jordan. È impossibile non rimanere affascinati dalle sue mosse e dalle sue parole che ci portano a riconsiderare il tradizionale concetto di leadership per eccellenza. 

Ciò che è istruttivo di “The Last Dance” è il modo in cui mostra l’intero arco del viaggio per diventare un leader, dal guerriero solitario che crede di poter affrontare il mondo da solo, a un leader più vecchio e saggio, che si affida più alla durezza mentale che al puro atletismo, che si fida dei suoi compagni di squadra, e che sostiene lo spirito di squadra. 

Con questo articolo tenterò di andare oltre ciò che sapevano, oltre ciò che possiamo chiaramente vedere. Vorrei concentrarmi più su cosa significa guidare una squadra, formata da personalità differenti, verso un obiettivo preposto e su quali sono le caratteristiche che dovrebbe teoricamente avere un leader. 

Ecco cosa ho imparato nei 10 episodi di The Last Dance:

1. Se vuoi ottenere di più dal tuo team devi dedicargli la massima attenzione

lezioni di leadership

Prestare attenzione al proprio team è fondamentale per essere un buon leader, ciò significa ascoltare e trovare continuamente modi per connettersi con la propria squadra cercando di aiutarli verso il raggiungimento dell’obiettivo condiviso. Phil Jackson, il famoso coach dei Bulls, ha prestato infatti particolare attenzione alla personalità di MJ e al modo in cui “His Airness” (soprannome di MJ) interagisse in maniera aggressiva con i compagni di squadra e ha lavorato per instaurare un equilibrio naturale tra i compagni.

Phil Jackson non ha mai avuto timore di mettere in panchina MJ nel momento in cui superava i limiti. Phil sapeva che la leadership non riguardava solo saper assecondare il tuo miglior giocatore, bensì stabilire connessioni con ciascuno dei giocatori della tua squadra.

Come Jackson, tutti i leader dovrebbero chiedersi costantemente ”come posso aiutare questa squadra a crescere?” I profili dei leader più tradizionali si concentrano sulle loro capacità decisionali, sul carisma, sulla capacità di gestire con un pugno di ferro e di piegare gli eventi alla loro volontà, ma forse l’enfasi dovrebbe essere posta sulla loro capacità di galvanizzare e ispirare il team con cui collaborano.

È vero nello sport, come è vero nelle organizzazioni. Cos’è un maestro di livello mondiale senza la magistrale orchestra alle sue spalle?

2. La determinazione e l’impegno sono fondamentali

La serie ci mostra come più volte Jordan abbia giocato partite memorabili in condizioni incredibilmente dolorose. Ha giocato con l’influenza, ha giocato con un’intossicazione alimentare, e ha giocato con il dolore per il tragico omicidio di suo padre.

Ma in qualche modo, ha sempre scavato a fondo dentro di sé per trovare quella forza in più per portare lui e la sua squadra al traguardo. Un buon leader non deve fermarsi di fronte a nulla, deve continuamente trovare la forza di rialzarsi ed andare avanti. Ci saranno molti momenti nella nostra vita e nella nostra carriera in cui ci sentiremo come se avessimo il mondo contro di noi. È proprio in quei momenti che un buon leader è costretto ad attingere alle proprie riserve nascoste di resistenza e determinazione.

3. L’intelligenza emotiva

l'intelligenza emotiva della leadership

L’intelligenza emotiva è un concetto sfuggente e intangibile. 

Comunemente è definita come la capacità di comprendere e gestire le proprie emozioni, oltre che di riconoscere e influenzare le emozioni di chi ci circonda. Punto cardine dell’intelligenza emotiva è la consapevolezza di sé. Infatti per far emergere il meglio dagli altri, dovete prima tirare fuori il meglio da voi stessi. Ed è qui che l’Intelligenza Emotiva diventa un ingrediente essenziale di un buon leader. 

La serie ci mostra come per Jordan sia stato un lungo viaggio quello verso un’acuta consapevolezza di sé e un livello più alto di intelligenza emotiva. Lentamente ha iniziato a fidarsi di più dei suoi compagni di squadra, soprattutto nei momenti cruciali, come quando nelle finali NBA ‘97-‘98 passò la palla decisiva a Steve Kerr, che segnó il colpo vincente del campionato. 

La leadership è molto di più dell’insieme di capacità tecniche, per eccellere sono fondamentali anche qualità intangibili come l’empatia, la consapevolezza di sé, la compassione.

4. Decisione e responsabilità

Il grande MJ dice: “Una volta presa una decisione, non ci ho più pensato”. Infatti una delle caratteristiche che non può mai mancare in un leader è la capacità di saper prendere delle decisioni e assumersene la responsabilità. Nel corso della sua carriera Jordan ha messo a segno innumerevoli tiri vincenti che hanno deciso decine di partite cruciali e lo ha fatto prendendosi la palla quando la posta in gioco era davvero alta. Il suo istinto lo ha guidato, ed ha trainato la squadra, in maniera impeccabile. 

È proprio ciò che dovrebbe fare un vero leader. Nella vita di tutti i giorni, come nella carriera, ci saranno molti momenti critici che richiederanno delle decisioni rapide che potrebbero farci sprofondare come portarci verso il successo. La responsabilità è un diretto sottoprodotto della decisione, infatti ad ogni scelta corrisponde una conseguenza (per te e tutto il tuo team). Jordan, da buon leader, ha preso piena responsabilità delle sue azioni giocando in maniera determinata e guidando la squadra verso la vittoria.

 In alcuni episodi vediamo come ci siano stati match critici, in cui mancavano pilastri della squadra come Scottie Pippen o Dennis Rodman. Questa non è mai stata una scusa valida per MJ per perdere una partita o fare un passaggio sbagliato, perché prima di tutto chiedeva responsabilità a se stesso, poi a coloro che lo circondavano. 

5. Non esistono scorciatoie

“Sii fedele al gioco, e il gioco sarà fedele a te […]. Questo riguarda il basket, e in qualche modo anche la vita “– Michael Jordan

Non esistono scorciatoie nel basket, come nella vita e Jorda l’ha provato un milione di volte, con l’impegno e la dedizione che ci metteva. Ci si arriva solo attraverso un lungo viaggio, fatto di alte salite, discese vertiginose, molti ostacoli e lezioni inestimabili.

6. Trova ciò che ti motiva davvero

la leadership come elemento motivante

Diversi allenatori e giocatori hanno pensato che sarebbe stato intelligente utilizzare giochi mentali o provocazioni per indebolire ‘Mike’. Il risultato?

MJ prese ogni suo sentimento negativo e lo usò come benzina per alimentare il suo fuoco. Lui ha sempre scelto di far parlare il suo gioco e nient’altro. Per arrivare al successo è importante trovare le proprie micce che accendono il tuo fuoco. E’ importante trasformare ogni momento o sensazione negativa in benzina per andare avanti.

7. Sbagliando si impara

Uno dei detti più noti a tutti, ma non per questo meno vero. Infatti i leader dovrebbero vedere il fallimento come un momento di apprendimento. Le sconfitte sono inevitabili per chi si mette in gioco, ma la vera forza sta nell’analizzare e gestire il fallimento, per comprendere dove abbiamo sbagliato.

Per me, “The Last Dance” è stato molto più che una docu-serie, è stata una Masterclass di leadership. Una volta che si guarda oltre il titolo, ci accorgiamo che la serie mette in luce tutte le qualità essenziali per cui ci battiamo nella nostra vita personale e professionale. È una storia di ambizione, determinazione di ferro, impegno, eccellenza tattica e leadership ispiratrice. The Last Dance ci ricorda che la leadership non significa nulla se non vi è prima di tutto rispetto tra le parti.  The Last Dance è un elogio dello spirito di squadra e della diversità dei talenti. Ma soprattutto, è totalmente trasparente. Forse ho parlato troppo (come sempre), sei d’accordo con i punti che ho evidenziato o credi ci sia altro da aggiungere? Se ti va fammi sapere la tua opinione con un commento. 

Se ti appassiona la Leadership…

Ti consiglio la nostra Mind Hacking Academy, il percorso rivolto a manager, team e organizzazioni, volto ad allenare il nostro mindset, per gestire la resistenza al cambiamento e generare innovazione sostenibile nel tempo.

17 Luglio 2020 6 commenti
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Fare carriera nel digitale

Formula 1 e lezioni di Team Management

by Edoardo Montesano 19 Giugno 2020
by Edoardo Montesano

Lezioni di Team Management che ho appreso dalla serie Netflix F1: Drive to Survive. Scopriamole in questo articolo.

Non mi piace la Formula 1, mai seguita.

Credo però che le grandi opere, letterarie, cinematografiche o televisive, possono essere definite tali quando riescono ad uscire dal loro genere: i batman di Nolan non sono solo dei film su di un supereroe, il Signore degli Anelli non è solo un film fantasy e F1: DRIVE TO SURVIVE non è solo un documentario sulla Formula 1. 

Non penso di essere l’unico a dirlo, ma Netflix negli ultimi anni ha portato il genere dei documentari ad un altro livello, dalla cucina, allo sport, fino al reportage, questo format è diventato uno dei cavalli di battaglia del servizio di streaming più famoso al mondo ed F1: DRIVE TO SURVIVE, entra a pieno diritto tra i titoli più belli e intriganti che ho visto su questa piattaforma. 

Nello specifico stiamo parlando di una docuserie, dove ogni stagione si espande per l’intera durata del Gran Prix (ad oggi campionato 2018 – 2019 e 2020 in produzione, Covid permettendo) e dove ogni episodio è focalizzato su una delle scuderie concorrenti o su di un certo personaggio all’interno di quella scuderia. 

Durante la prima stagione i team che hanno firmato il contratto con Netflix erano quelli più piccoli, che possiamo definire un pò come delle “startup della F1” per la loro propensione a mettersi in gioco e alla sperimentazione. 

La Formula 1 è un ambiente brutale, dove può succedere che un ragazzino di 19 anni pianga a dirotto dentro una macchina sparata a 350 km orari, perché sa che le sue performance stanno calando a causa delle pressioni spaventose che ha da parte della scuderia e dei media. 

Per questa ragione è facile intuire che molti team potevano avere delle serie riserve a consentire ad una squadra di cameramen di seguirli giorno e notte e in qualsiasi situazione, come avviene nella serie.  Poi la prima stagione è uscita, è stata un gran successo e allora sono saltati a bordo anche i big, Mercedes Petronas, Ferrari, McLaren…ecc, certi ormai della riuscita del format. 

Cosa ho capito della Formula 1 grazie a questa serie? 

Prendiamo ad esempio i più vincenti di tutti: Mercedes Petronas. 

Si tratta di un team itinerante di 1500 persone, che ha un solo obiettivo: “Let’s crush them” come dice il loro team principal Toto Wolff. 

Se ci concentriamo su questo caso, il più lampante ma è valido per tutti, è facile comprendere come in Formula 1 ogni scuderia è un’impresa che lavora alla realizzazione di un prodotto il più performante possibile, in un ambiente di estrema incertezza, con una pressione psico-fisica enorme e dove l’ottimizzazione dei processi è la chiave del successo. 

Il pilota in questo sport ha un duplice ruolo: egli è infatti contemporaneamente prodotto e membro del team. Nel suo ruolo di prodotto il pilota diventa interamente assimilabile all’auto che guida, un tutt’uno, e il compito della squadra è quello di consentirgli di arrivare al giorno della gara nella migliore condizione possibile. 

Come membro del team egli riveste invece il ruolo del prototyper: ogni gara è un test da cui si possono dedurre dei dati e il suo compito è quello di spingere al massimo il mezzo e riportare i dati qualitativi, quali il feeling con l’auto e con le ultime modifiche apportate. Sì, non lo sapevo, ma la macchina è un prodotto vivo, che viene modificato e ottimizzato ad ogni gara. 

Durante la serie, infatti, si vedono spesso questi meeting interminabili dove analisti, meccanici, team principal e piloti, riguardano la gara precedente, analizzano grafici illeggibili, condividono le loro impressioni e si scambiano idee. 

Quali lezioni possiamo portarci a casa dalla Formula 1?

La serie è popolata di personaggi interessanti, carismatici, divertenti e drammatici, ma per questo articolo e per le sue finalità proseguirò nell’utilizzare l’esempio di Mercedes Petronas. 

Perché? Sono i migliori. Vediamo che hanno da insegnarci.

La Leadership come processo a cascata

La leadership come processo a cascata
Niki, Lewis & Toto

Qualche anno fa Mercedes era una squadra relegata agli ultimi posti in classifica, finché non ha intrapreso un drastico cambio di direzione che le ha consentito di vincere la bellezza di sei Gran Prix consecutivi. Questo inversione di marcia aveva un nome e si chiamava Niki Lauda. 

Anche io che so poco o nulla di Formula 1 conosco ovviamente il personaggio, che al pari delle grandi opere, era di una portata tale da spiccare al di fuori del contesto in cui era inserito. Larger than life come dicono gli americani, un termine che mi piace molto. 

L’arrivo di Niki innesca inevitabilmente un processo a cascata che ha come conseguenza quella di attirare a sé altre figure speciali, fuori dall’ordinario. 

Prima tra tutte Lewis Hamilton, considerato oggi il miglior pilota di sempre, nella serie dichiara senza mezzi termini: “Se Niki non mi avesse chiamato personalmente, non sarei venuto in Mercedes”. 

Secondo, ma non per importanza, Toto Wolff, tutt’ora il Team Principal di Mercedes. Toto è un autentico squalo, con le mani in pasta dappertutto, un fiuto incredibile e delle doti da leader eccezionali, che gli consentono di comprendere quali sono le persone migliori di cui circondarsi a sua volta. 

La leadership, come insegnamo anche nella nostra Mind Hacking Academy, ha un ruolo fondamentale, perché attira a sua a volta altra leadership ed espande la sua influenza sul resto del team, che migliora e cresce come risposta adattiva alla sua forza trascinante. 

La responsabilità condivisa – We win and we lose together

strategie di team management
Mercedes ai pit stop

Durante uno degli episodi Mercedes affronta una gara disastrosa, Lewis viene speronato ed è costretto a fermarsi ai pit stop, d’urgenza e in un momento che non era stato previsto dal resto della squadra. In genere, e come ho imparato sempre nella serie, il tempo di sosta medio ai box in Formula 1 è di 1,5 sec, ma in quel caso ci impiegano la bellezza di 57 secondi a rimettere la macchina in pista. Una gara da dimenticare. 

Una cosa che mi è piaciuta molto dopo questo insuccesso è il commento di Toto “Lavoreremo insieme per capire cos’è andato storto, non ce la prendiamo con nessuno del team perché in questa azienda abbiamo una politica di responsabilità condivisa”. Te l’ho parafrasata un pò, ma la solfa era questa.

A Lacerba non siamo 1500, ma crediamo nello stesso approccio, dove ogni membro del team è empowered dal fatto che è parte integrante di tutti i processi decisionali che vengono presi e ha una visione in tempo reale di come sta performando l’azienda – We win and we lose together.  (se ti interessa saperne di più di come organizziamo il nostro lavoro ne ho parlato nel dettaglio in un altro articolo, sempre su questo blog.)

Le persone prima dei processi

il team è la vera forza
Foto di gruppo, con Toto che tiene fra le mani il cappellino di Niki, defunto recentemente.

In ambito Digital sento spesso parlare di ottimizzazioni dei processi, ma si dimentica volentieri le persone, o più che altro le si da per scontate. In Formula 1 l’ottimizzazione dei processi è fondamentale, tutto è un ingranaggio perfettamente oleato che deve performare al meglio, in frazioni di secondo. Ma come ci riescono? 

Il team, il team è tutto: preparato, formato, responsabilizzato e partecipe.

I corsi che ti consigliamo

Se ti intera la gestione aziendale, la leadership e l’organizzazione del team ti consiglio di visitare la Mind Hacking Academy, la nuova area sul sito di Lacerba pensata per affrontare il cambiamento e guidare la tua azienda verso la Digital Transformation. All’interno troverai corsi Leadership Adattiva, future studies e molto altro.

19 Giugno 2020 0 commenti
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Fare carriera nel digitale

Nel 2021 ha ancora senso la differenza tra back end e front end?

by Daniele Ugolini 17 Giugno 2020
by Daniele Ugolini

Scopri cosa sono la programmazione front-end e back-end, le principali competenze richieste per queste professioni e i trend del futuro nel settore.

corsi online per aziende

INDICE

  • Introduzione
  • La differenza tra front end e back end
  • Chi è il programmatore front end?
  • Chi è il programmatore back end?
  • Come scegliere tra front end e back end nel 2020?
  • Trend del futuro nella programmazione
  • I corsi che ti consigliamo

Introduzione

Quando mi sono affacciato per la prima volta al mondo della programmazione web ho iniziato a chiedere consiglio ad amici programmatori su quale linguaggio di programmazione fosse il migliore per poter iniziare. Molto spesso la loro risposta era sempre la stessa:

“non conta il linguaggio che sceglierai di imparare all’inizio, quello che conta davvero è capire se vuoi fare front-end o back-end”. 

Anni dopo, sono passato dal lato degli sviluppatori, e molto spesso mi trovo a dare lo stesso suggerimento per orientare chi vuole affacciarsi allo sviluppo web. 

Ma quale è la differenza tra lo sviluppo front-end e quello back-end? E perchè questa differenza è così importante?

cosa sono la programmazione front end e back end

La differenza tra Front-End e Back-End nella pratica

Partiamo dal capire che cosa sviluppa un programmatore front-end e cosa sviluppa un back-end. Ad esempio, quando apriamo il nostro browser e inseriamo “https://lacerba.io” sulla barra di ricerca verrà visualizzata l’homepage del sito Lacerba. Questa home è composta da una serie di elementi strutturati e organizzati all’interno della pagina, come la la barra di navigazione in alto oppure la sezione con i percorsi disponibili. La disposizione di questi elementi nella pagina, e il loro stile è uno dei compiti principali di uno sviluppatore front-end. Se invece proviamo a fare login per accedere alla nostra area riservata avremo un form che ci chiede email e password. Quando inseriamo le nostre credenziali e clicchiamo sul bottone ‘invia’, viene effettuata una chiamata al server Lacerba che si occuperà di interagire con il database e verificare se questo utente esiste e se la mail è corretta. Il server si occuperà di rimandare al browser un’informazione positiva se l’utente esiste e la password è corretta oppure, in caso contrario, un errore. L’interazione tra front-end, server e database è uno dei compiti principali di uno sviluppatore back-end.

Di seguito trovi un anche breve video che ho realizzato dove spiego la differenza tra front-end e back-end, utilizzando come esempio un fast food.

L’esempio di un Fast Food per capire il front-end e il back-end

La differenza tra front-end e back-end molto spesso va oltre il concetto di codice, rappresenta due culture e paradigmi di sviluppo tra loro diversi, con un obiettivo molto spesso condiviso, realizzare applicazioni e siti web utilizzabili e performanti, e questo non è possibile senza il lavoro di entrambi. Andiamo ad analizzare nel dettaglio la differenza tra front-end e back-end, facendo riferimento non solo al codice, ma anche alla soft skills utili per diventare una di queste figure. 

Chi è il programmatore front-end?

Il front-end è la parte di un sito web con cui l’utente interagisce. Tutto quello che vedi in una pagina web, dal font alla disposizione dei bottoni, passando per i popup, fa parte del front-end del sito web.

Hard Skills richieste

Il front-end developer è responsabile di realizzare la parte del codice del sito che viene visualizzato dall’utente e la sua user experience. I linguaggi principali richiesti sono HTML, css e Javascript. In aggiunta a questi linguaggi è importante che uno sviluppatore front-end abbia familiarità con dei framework di User Interface come Bootstrap, delle librerie come jQuery per la gestione di interazione ed eventi oppure linguaggi di css avanzato come SASS.

Da qualche anno ormai si sono diffusi dei framework javascript, come ad esempio React o VueJs, che permettono di sviluppare interfacce e interazioni complesse all’interno del sito velocemente e in maniera strutturata. Questi framework, molto spesso però hanno delle logiche di sviluppo vicine al back-end, rendendo la differenza tra front-end e back-end sempre meno netta.

Soft Skills Richieste

Gli sviluppatori front-end si troveranno a lavorare a stretto contatto con dei web designer e per questo può aiutare conoscere dei software di mockups o wireframe come ad esempio sketch o photoshop. Per un front-end può essere un valore aggiunto avere un approccio orientato al design e alla user experience, in modo da contribuire direttamente alla realizzazione e progettazione delle interfacce. Per questo gli sviluppatori front-end spesso sono orientati al dettaglio, esprimono la loro creatività in maniera visuale e ricevono un feedback immediato.

Se desideri approfondire gli aspetti relativi al front end ti consiglio anche l’articolo “Il web design al servizio del Ma(rketing)le”, sempre su questo blog.

Chi è il programmatore back-end?

Il back-end è quello che sta dietro un sito, quello che non si vede ma che ne permette il funzionamento generale. Il back-end consiste di un server, un’applicazione web e un database. Il back-end developer si occupa di costruire e mantenere la tecnologia che abilita e collega queste tre componenti.

Hard Skills richieste

Per far comunicare il server, database e l’applicazione tra di loro, gli sviluppatori back-end utilizzando uno o più linguaggi server-side, come ad esempio Ruby, Python, Java, PHP, .NET o Node per costruire l’applicazione, e strumenti come SQL Server per interagire con il database. 

La maggior parte degli sviluppatori back-end conosce, almeno ad un livello base, i principali linguaggi front-end, HTML, css e Javascript. Javascript, come già menzionato, è un linguaggio front-end molto diffuso che negli anni si è evoluto tantissimo, ed è ormai molto comune trovare sviluppatori back-end che utilizzano quotidianamente uno dei framework front-end basati su javascript come React, VueJS o AngularJS. Proprio perché Javascript è un linguaggio così diffuso sono nati anche dei linguaggi di programmazione server-side basati interamente su Javascript, il più famoso è sicuramente NodeJS che è un framework back-end a tutti gli effetti basato su Javascript.

Soft Skills Richieste

I programmatori back-end molto spesso si trovano ad integrare diverse componenti tra loro, molto spesso in maniera astratta, quindi è importante avere un approccio orientato al problem solving. Al back-end developer spettano anche decisioni su tecnologie, integrazioni o architettura del software e spesso si occupano di convertire richieste di business in requisiti tecnici per trovare la soluzione più efficiente per sviluppare la tecnologia. Se lo sviluppatore front-end ha più un approccio orientato all’utente, lo sviluppatore back-end ha un approccio più orientato alla tecnologia e alle funzionalità.

Come scegliere tra Front-end e Back-end nel 2020?

Ma come possiamo scegliere se iniziare dallo sviluppo front-end o back-end? Ci sono alcune variabili che ci possono aiutare nella scelta.

Obiettivo

Quale è l’obiettivo che ci spinge ad imparare a programmare? Se l’obiettivo è la ricerca lavoro possiamo dire che non c’è una forte differenza tra le due figure, entrambe sono molto richieste nel mercato. Anche come stipendio medio le due figure sono più o meno in linea su un entry level.

Se invece l’obiettivo è quello di imparare a programmare per realizzare dei progetti personali oppure per diventare un freelance, la scelta tra un percorso front-end e uno back-end può impattare. Se i progetti che si vogliono realizzare sono dei progetti che non richiedono un server/database come ad esempio dei siti statici (sito vetrina di un’attività, portfolio di un professionista, etc…) allora la scelta migliore può essere quella di focalizzarsi sul front-end. Se invece si vogliono creare delle applicazioni web che necessitano dell’architettura con il server e database per la gestione dei dati allora la scelta è forzata verso il back-end.

Caratteristiche Personali 

Le caratteristiche personali, soft skills e passioni possono essere un fattore determinante nella scelta della carriera.

Una figura orientata all’estetica, alla parte visuale, al dettaglio probabilmente sarà più appassionata dallo sviluppo front-end, visto che la sfida principale di questo lavoro è realizzare applicazioni che siano utilizzate e amate dagli utenti. Mentre una figura più orientata al problem solving e all’integrazione di diversi sistemi sarà più appassionata dalla parte back-end, dato che la sfida principale del suo lavoro è quella di ridurre al minimo gli errori e garantire il funzionamento di tutta l’architettura.

I trend del futuro nella programmazione

Come abbiamo visto la differenza tra front-end e back-end è ancora attuale anche se con lo sviluppo di Javascript e dei suoi framework la distinzione è decisamente meno netta e ormai è abbastanza comune trovare sviluppatori front-end che sono in grado di scrivere del codice attraverso linguaggi server-side così come è comune trovare programmatori back-end che sono dei guru di javascript. Basta analizzare questo report realizzato da stackoverflow (il sito più utilizzato da ogni programmatore) per vedere che javascript è ormai il linguaggio più diffuso.

i trend del futuro nella programmazione
Un’immagine estratta dal report di stackoverflow.

In aggiunta a javascript ed i suoi framework ci sono una serie di strumenti di sviluppo che ormai sono utilizzati quotidianamente da entrambe le figure, come ad esempio Git e Github per gestire il codice e lavorare in team sullo stesso progetto, oppure Docker per semplificare il setup di una nuova applicazione e ridurre eventuali problematiche relative ad ambienti di sviluppo diversi. Anche nel modo di impostare il lavoro ormai è comune vedere lo stesso approccio tra le due figure, ovvero sviluppo agile, che sfrutta la metodologia lean basata su cicli di sviluppo brevi a sprint.

Allo stesso tempo il web development sta andando verso una direzione modulare, con la creazione di componenti indipendenti, riutilizzabili, e semplici da mantenere nel lungo termine. Questo significa che sviluppatori front-end e back-end si trovano a lavorare a stretto contatto, spesso in piccoli team ed è molto comune che queste figure siano in grado di capire il lavoro dell’altro per raggiungere al meglio gli obiettivi di business prefissati.

È importante sottolineare come il coding sia un mondo in continua evoluzione, molte tecnologie nascono e muoiono velocemente, così come paradigmi di sviluppo, mentre quello che rimane invariato è l’obiettivo della programmazione: ovvero creare applicazioni che hanno l’obiettivo di essere utilizzabili, performanti e sicure.

Fra 10 anni i linguaggi di cui ti ho parlato potrebbero essere in disuso, allora non sarai più un programmatore Back End o Front End? Non sono tanto le etichette a definire chi sei nella programmazione, ma il tipo di soluzione, la strategia di problem solving che sceglierai di attuare per risolvere o aggirare un dato problema. Perché tutto è in costante evoluzione nel mondo della programmazione, ma una cosa resta invariata: si tratta di risolvere problemi. 

I corsi che ti consigliamo

Se desideri approcciarti alla programmazione su Lacerba abbiamo sia dei corsi introduttivi di livello base, che corsi verticali per apprendere il front-end e il back-end.

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Percorso da front end developer – accedi con una borsa di studio e inizia la tua carriera

Percorso da programmatore back end – accedi con una borsa di studio e inizia la tua carriera

17 Giugno 2020 2 commenti
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Fare carriera nel digitale

Il Mindset per affrontare il cambiamento

by Barbara Galiazzo 16 Giugno 2020
by Barbara Galiazzo

Scopri un nuovo Framework attraverso cui allenare il tuo Mindset al cambiamento.

Qualche tempo fa vi ho raccontato un fenomeno che il Team Lacerba sta studiando da un anno ormai: la Digital Transformation e il suo “lato umano” e culturale (questo il link dell’articolo precedente se te lo sei perso). La Digital Transformation di per sé non è certo una novità, ma abbiamo voluto comunque ragionarci per capire come la stanno vivendo, al di là della comunicazione di facciata, le aziende con cui lavoriamo.

Bisogna prima individuare il problema alla base

Un aspetto che ci è stato subito chiaro è come questo fenomeno non stia impattando solo il lavoro delle persone, ma anche il loro modo di vivere al di fuori dell’azienda. Il confine tra interno ed esterno le organizzazioni in cui lavoriamo è diventato sempre più sfumato e così, mentre le routine giornaliere si accavallano, molti corrono verso lo scopo comune di “stare al passo”. Per questo pochi si rendono conto di quanto sarebbe più saggio focalizzarsi su meno obiettivi per riuscire a mantenere sempre uno sguardo attivo e curioso al futuro, piuttosto che rincorrere il presente.

Noi questo lo notiamo spesso, assistendo e indirizzando tanti studenti che hanno sì fame di imparare nuove competenze, ma lo fanno senza una reale comprensione del perché queste skills possano essere fondamentali per il loro sviluppo personale. Senza un Perché chiaro, come in tutte le decisioni che prendiamo durante la vita, è difficile rendere effettiva la nostra crescita nel medio periodo. Se di per sé questa fame è positiva, è quindi altrettanto evidente il bisogno di modificare l’approccio con cui cerchiamo di “saziarla”.

Dovremmo diventare capaci di applicare il cosiddetto “Golden Cricle” di Simon Sinek anche all’apprendimento, ovvero applicare il ciclo: Perché – Come – Cosa. Invece del contrario, come molti fanno: come – perché, con tutti i limiti del caso.

il mindset per affrontare il cambiamento
Lo schema del Golden Circle di Sinek

E questo non ha nulla a che vedere con la tecnologia, ma solo con il nostro “mindset”, che non è né analogico né digitale, ma è dinamico e va compreso per imparare a guardare al futuro, a plasmarlo. Quindi mettiamo per ora da parte il digital, che in fin dei conti è solo un mezzo, e concentriamoci sul nostro mindset per capire perché è così importante, soprattutto in questa fase storica.

Perché è importante parlare di Mindset? E perché è così difficile comprenderlo?

Il Mindset è un altro di quei mantra che girano nelle organizzazioni, ma a cui dare veramente un senso univoco risulta spesso complesso. A dir la verità anche noi abbiamo speso parecchie ore di brainstorming e studio prima di arrivare a un punto di vista comune. Partiamo quindi dall’inquadrarne le caratteristiche di base.

Il mindset è il ponte tra la nostra sfera cognitiva e quella comportamentale. In poche parole, è ciò che collega quello che sappiamo, le nostre competenze (la parte cognitiva) a come le applichiamo nei confronti del mondo esterno (la parte comportamentale). Agire sul mindset significa quindi andare ad agire sul modo di comportarci, di attivare le nostre competenze, di fronteggiare le diverse situazioni (come il reagire alla trasformazione digitale, ad esempio, ma anche più semplicemente come il risolvere un problema sul lavoro).

Non è però semplice formare nel tempo “un giusto mindset”. Non esiste infatti un modo di comportarci che risulterà corretto in ogni situazione, come non ne esiste uno sempre e solamente sbagliato, uno totalmente buono o totalmente cattivo. E di conseguenza non esiste un mindset univoco, specialmente in un mondo che, come dicevamo prima, cambia continuamente.

E quindi? Cosa fare in questo “moto perpetuo” fatto di cambiamento continuo?

La risposta ci è sembrata chiara nel momento in cui abbiamo ribaltato la prospettiva comune: non dobbiamo insegnare un nuovo mindset, ma dobbiamo insegnare come allenare il proprio mindset al cambiamento.

La differenza è sostanziale. In un contesto così mutevole la migliore strategia da percorrere non è quella di adattarsi allo scenario del momento, ma piuttosto quella di allenare più in generale le nostra capacità di problem solving, di adattamento, di flessibilità ai nuovi scenari. Se vogliamo iniziare a correre, invece di rincorrere, dobbiamo essere parte del cambiamento, avere un mindset altrettanto mutevole e plasmabile.

Ora, essendo di per sè il mindset un concetto complesso, complesso è anche il suo modo di de-formarsi in modo “plastico” per ri-formarsi continuamente. Per questo abbiamo costruito un framework che, scomponendo la trasformazione in tutti i suoi pezzi, ci aiuti a inquadrare un vero e proprio allenamento, un percorso, composto sia da concetti utili ad alimentare la parte cognitiva del mindset, sia di strumenti, esercizi e casi pratici, per comprendere come applicare nel concreto quanto appreso.

Un percorso che abbiamo costruito in modalità “Hacking”, parola spesso usata nel mondo startup e che ora come non mai ci sembra adatta a descrivere la strategia da seguire: una strategia incentrata, come nel coding, sul riprogrammare continuamente quanto sviluppato, alla ricerca di soluzioni più efficienti.

Questa volta però lo faremo per imparare come riprogrammare velocemente e costantemente il nostro codice mentale, per renderlo migliore e adattivo.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il Mindset

come allenare il mindset
I cicli iterativi si pongono alla base dell’innovazione

Ogni volta che ci troviamo di fronte ad un cambiamento e ad una situazione nuova, che sia questo relativo al digitale o meno, abbiamo sempre a che fare con questi aspetti del mindset, guidati dalla componente cognitiva o comportamentale:

  • Differenziazione: ampliamento della nostra conoscenza, che ci consente di avere gli elementi per comprendere il nuovo.
  • Integrazione della nuova conoscenza appresa nei nostri comportamenti quotidiani, nelle nostre scelte e applicazione concreta della conoscenza, anche dopo aver acquisito senso critico e consapevolezza.
  • Accettazione / rifiuto dei nuovi comportamenti e conoscenze apprese.

Scomporre questi aspetti ci ha consentito di costruire un framework che potesse andare ad allenare e rispondere ai meccanismi di risposta del mindset.

Il Manifesto del percorso della Mind-Hacking Academy

Quando abbiamo iniziato a ragionare sul percorso insieme a Valentina De Matteo, strategic designer e coordinatrice del percorso, siamo partiti da alcuni principi “identitari” che ci hanno guidato nella definizione del suo proposito e delle modalità di trasferimento di conoscenze, pratiche e metodi più efficaci al raggiungimento dell’obiettivo di allenamento e programmazione continua del nostro mindset. Questi sono i punti chiave su cui abbiamo fondato il nostro lavoro:

  • Crediamo che non esista un mindset analogico e uno digitale. Crediamo esista un mindset e non sia mai definitivo. Non essendo definitivo, possiamo allenarlo a cambiare velocemente, a rispondere proattivamente ai cambiamenti in corso e che verranno. 
  • Allenare il mindset in modalità “Hacking”, significa sviluppare la capacità di far uso di creatività e immaginazione in qualunque situazione, e in particolare nella soluzione di un problema e di una situazione di cambiamento e novità.
  • Il Mindset come leva della trasformazione e dell’innovazione. Il nostro è un percorso pensato per allenare il mindset a innovare a 360°, dentro e fuori dall’azienda, e quindi a rispondere non solo alla trasformazione digitale, ma a tutte le trasformazioni che verranno. Lavorare sul mindset significa lavorare sulla differenza tra il dire e il fare innovazione, tra essere spettatori e anticipatori del cambiamento. Essere allenati ad interpretare la trasformazione ci permette di capire quando questa rappresenti una reale opportunità, e quindi quando e quanto investire in essa per generare innovazioni sostenibili e positive per il nostro ecosistema.
  • La Mind-Hacking Academy è un percorso pensato per noi e per chi ci sta attorno. L’Academy è un percorso trasversale, creativo ed efficace, pensato per tutti e con un grande potere di influenzare positivamente e fertilizzare l’ambiente che ci circonda, il nostro Team e la nostra realtà lavorativa..

Qualche spoiler sull’Academy

Il Framework che abbiamo costruito e che fa da base all’academy si poggia su quattro elementi/esigenze che definiscono la bussola della trasformazione, intesa come innovazione.

Digital Transformation e come affrontarla
Le variabili del Framework
  • Competenze: Come valutare lo «skill capital» mio, del mio team e della mia organizzazione? Quali competenze esistenti irrobustire e come far emergere quelle potenziali?
  • Comportamenti: Come preparare se stessi, il proprio team e la propria organizzazione a imparare ad imparare e trasformarsi costantemente?
  • Strumenti: Quali strumenti – non solo digitali – mettere in campo per superare e anticipare le prove del cambiamento?
  • Organizzazione: Come uscire dalle forme organizzative tradizionali per scegliere assetti più agili, responsivi, adattivi e funzionali agli obiettivi?

Dall’incrocio di questi 4 elementi, ne derivano i quattro moduli della Mind-Hacking Academy che rispondono a domande diverse:

Digital Mindset per il cambiamento
Il Framework Lacerba, così come appare anche sul nostro sito.
  • C2 (Creativity x Collaboration) Mindset : Come allenare il processo di creatività e innovazione e renderlo sistemico all’interno di del mio Team / della mia organizzazione?
  • Adaptive Mindset: Come allenarsi al cambiamento organizzativo continuo? Come riconoscere il proprio modello e imparare a innovarlo in maniera efficace?
  • Abundance Mindset: Come farsi promotore di innovazione guardando al di fuori dalla propria zona di confort e fertilizzare positivamente il proprio ambiente di lavoro?
  • Design Mindset: Come rendere sistemico il processo di innovazione nei processi di creazione interni e per la creazione di valore per i propri clienti?

Andremo via via a svelare come si componga il programma di allenamento di ognuno di questi quattro quadranti, che puoi già esplorare alla pagina della Mind Hacking Academy. Per approfondire ulteriormente ti consiglio anche di vedere il webinar di presentazione dell’Academy che abbiamo fatto insieme alla coordinatrice del corso: Valentina De Matteo.

Ma prima di lasciarti, vorrei porti una domanda: in quale di questi aspetti ti senti meno pronto al cambiamento? Dove ti senti in forma, e dove invece sei fuori allenamento? Fammelo sapere con un commento sotto questo articolo!

To be continued…

16 Giugno 2020 0 commenti
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Fare carriera nel digitale

Outbound Marketing e Inbound Marketing: cosa sono nella pratica

by Edoardo Montesano 8 Giugno 2020
by Edoardo Montesano

Scopri cosa sono Outbound e Inbound Marketing attraverso un case study pratico.

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INDICE

  • Cosa sono Outbound e Inbound Marketing
  • L’obiettivo di campagna
  • Storyline e contenuto cardine
  • La storia deve proseguire
  • Il Chatbot: un elemento chiave
  • Un’immagine coordinata
  • Flash Sale: la fine della promozione
  • I corsi che ti consigliamo

A Lacerba adoriamo Halloween.  

Si tratta di quel momento dell’anno in cui ci divertiamo a sperimentare e a dare sfogo alla nostra creatività per sorprendere i nostri utenti con dei contenuti fuori dall’ordinario.  L’effetto che ricerchiamo è “Aspetta, ma è Lacerba questa?”. Un’altra cosa che ci piace molto è mettere subito le cose in pratica e andare al nocciolo della questione senza tanti giri pindarici.  Ecco perché in questo articolo voglio fondere divertimento e pratica per spiegarti cosa sono Inbound e Outbound Marketing, ripercorrendo step by step una delle nostre campagne di Marketing di Halloween. 

Quindi breve premessa teorica, via il dente via il dolore, e si parte. 

Cosa sono Inbound Marketing e Outbound Marketing? 

Contenuto paid vs contenuto non paid

Una prima distinzione che possiamo fare tra Outbound e Inbound Marketing è che il primo comporta un costo, ossia stiamo pagando un terzo per essere presenti nel suo spazio. Per spazio si intende i social come Facebook e Instagram, ma anche i cartelloni pubblicitari che vediamo in tangenziale mentre passiamo in macchina. 

Nel secondo caso, l’Inbound, i contenuti che produciamo sono destinati a spazi di cui noi siamo proprietari e per cui non paghiamo. Può essere il nostro blog, la nostra pagina Facebook, oppure la vetrina del tuo negozio. 

Interrompere vs attrarre

Un’altra distinzione che possiamo fare è che l’Outbound Marketing fa riferimento a quel tipo di attività promozionale più tradizionale, volta ad interrompere l’utente durante lo svolgimento delle sue attività quotidiane. Può essere la pubblicità in tv, le sponsorizzate sui social o la telefonata del call center. Attenzione, quando mi riferisco al fatto che è un metodo tradizionale, non significa che sia in disuso, anzi! Tu quante pubblicità vedi ogni giorno mentre navighi sui social?

L’Inbound Marketing è più recente invece, ed è figlio del paradigma dominante del Marketing moderno: Content is the King. Le aziende oggi cercano di intrattenere sempre di più il cliente, di divertirlo e di informarlo mettendo a disposizione la loro expertise. Con l’Inbound Marketing noi non andiamo più a cercare il nostro utente, ma facciamo in modo che sia lui a venire da noi. 

Supponiamo che ti interessi di Marketing, volevi chiarirti le idee sui concetti di Outbound e Inbound Marketing e attraverso le tue ricerche sei atterrato su questo articolo. Supponiamo adesso che questo articolo ti sia piaciuto molto -paraculata lo so- che gli metti un like e lo commenti positivamente. Nel momento in cui deciderai di fare lo step successivo, quello di passare dall’essere interessato alla materia a volerti formare effettivamente, è molto probabile che la tua mente farà questo tipo di associazione: Marketing – Formazione – Lacerba. Se così sarà, avrò fatto un buon lavoro di Inbound Marketing! 

Ma la cosa più importante che devi ricordarti, e qui chiudiamo con la premessa teorica, è che Outbound e Inbound non si escludono a vicenda e anzi, sono tanto più efficaci quanto più lavorano sinergicamente! Passiamo alla pratica e vediamo come. 

Se ti appassiona il Marketing e vuoi approfondire altri aspetti teorici ti consiglio anche l’articolo del mio collega “LE 4P DEL MARKETING MIX” sempre su questo blog.

L’obiettivo di campagna

L’obiettivo della nostra campagna di Halloween era testare l’Engagement dell’audience di Lacerba e la loro propensione all’acquisto d’impulso. Per questa ragione abbiamo deciso di creare una campagna di Marketing interamente basata sui Social. In questo caso possiamo distinguere la nostra pagina aziendale su Facebook e Instagram come il canale Inbound, mentre le campagne pubblicitarie a pagamento, sugli stessi social, come il canale Outbound.

Il punto d’arrivo della campagna era una flash sale, ovvero uno sconto allettante per un periodo di tempo molto limitato.  Nei giorni che precedevano la flash sale bisognava dunque generare maggiore traffico sui nostri canali social, catturare l’attenzione delle persone e far capire che stava per succedere qualcosa, senza spoilerare nulla. 

Non abbiamo mai detto “Ehi, stai in campana che fra poco scontiamo tutti i corsi”. 

Storyline e contenuto cardine

La creatività principale di Halloween

Visto il video?

Questo era il contenuto cardine con cui abbiamo aperto la campagna. Una creatività abbastanza elaborata e time consuming da produrre, ma è necessario un contenuto fuori dall’ordinario per distinguersi e restare nella mente delle persone.  Lo scopo di questo video era fare awareness, far capire che stava succedendo qualcosa, senza svelare troppo. Una volta realizzato il video l’abbiamo postato sulle nostre pagine, quindi canale Inbound, e atteso un paio di giorni che esaurisse la sua portata organica. 

Il secondo step è stato riprendere lo stesso post e farne un contenuto sponsorizzato, canale Outbound, da far girare con una frequenza abbastanza alta su un’audience che comprendeva tutte le persone che conoscevano già Lacerba e la tipologia di prodotti che vende. 

Ecco dove entra in gioco la sinergia tra Inbound e Outbound Marketing! In una strategia del genere, basata sulla viralità del contenuto, non potevamo lasciare le cose al caso, o meglio, all’algoritmo di Facebook. Dovevamo essere certi che il maggior numero di persone nel nostro target vedesse il contenuto.  Inoltre, piccola nota tecnica di Facebook Ads, se un contenuto ha già girato molto bene a livello organico è facile che venga premiato maggiormente da Facebook quando verrà sponsorizzato. 

La storia deve proseguire

Social Media Strategy
La storia deve continuare

La tua strategia è partita, hai destato l’interesse nelle persone che ti seguono, ma non puoi permetterti di lasciare la cosa a se stessa. La devi curare, produrre altri contenuti e mantenere alta l’attenzione, altrimenti ti dimenticheranno.  Nel nostro caso la storyline era tanto assurda quanto semplice: una zucca malefica infesta i nostri studios e nella notte, quando il nostro collega chiude l’ufficio nel video che hai visto prima, prende il controllo di Lacerba. 

A questo punto era libero spazio alla creatività: ci siamo divertiti a giocare sul nonsense e tutti i membri del team hanno contribuito a realizzare dei post capaci di strappare un sorriso alle persone che ci seguivano. Anche in questo caso i post che avevano avuto maggiore successo in Inbound venivano ripresi nelle sponsorizzate per fare retargeting su chi aveva visto il video iniziale. 

Il Chatbot: un elemento chiave della strategia

Manca ancora un elemento, l’Engagement, che come ti dicevo all’inizio era una delle colonne portanti della nostra strategia. 

Per questa campagna ci siamo affidati ad un Facebook Messenger Chatbot: ogni post della zucca aveva infatti una CTA: “commenta con l’emoticon della zucca per restare aggiornato sul mio piano malefico” e quando la persona commentava con l’emoticon iniziava automaticamente una conversazione con il nostro Chatbot sulla pagina Facebook di Lacerba. 

La funzione del Chatbot era quella di aggiornare l’utente e farlo sentire parte di un gruppo elitario. Iniziando una conversazione con la Zucca, infatti, si prendeva parte ad una cerchia ristretta che aveva accesso a più informazioni su cosa stava succedendo, rispetto al resto del pubblico.

Il Chatbot è stato un elemento importante: quando la tua campagna di Marketing è interamente basata sui social è fondamentale tenere le persone il più possibile sul quel canale e farle interagire affinché  l’algoritmo riconosca il valore dei tuoi contenuti e li premi, aumentandone la visibilità. 

Un’immagine coordinata

Un’immagine coordinata aiuta la tua narrativa e serve a far sì che la sinergia tra Outbound e Inbound funzioni al meglio. Per tutto il periodo della promozione Lacerba ha subito dei cambiamenti, nella grafica del sito, nelle mail inviate, nell’immagine profilo dei canali social…ecc. Benché la storia era assurda doveva sembrare vera perché funzionasse davvero: Lacerba non era più la scuola online come la conosciamo noi e i nostri utenti. Era diventata una creatura della Zucca malefica. 

Flash Sale – La fine della Promozione

Inbound e Outbound Marketing
Uno degli ultimi post della promozione.

Il 31 di ottobre, la Zucca “ha hackerato” i sistemi di Lacerba e per alcune ore tutti i nostri corsi sono stati in sconto del 50%, prima che riuscissimo a riprendere il controllo dei nostri studios e scacciare lo spirito maligno. Quel giorno abbiamo battuto il record di utenti attivi sul nostro sito e di fatturato, in 24h, solo per poi batterlo nuovamente qualche mese dopo con un’altra promozione. Sperimentando si impara. 

Marketing Strategy success
Questo contenuto non è sponsorizzato da Birra Moretti 🙂

Durante la flash sale l’intero team è stato impegnato nell’assistenza al cliente, sempre impersonando la Zucca: una settimana impegnativa che si è conclusa con un giorno di fuoco, ma abbiamo imparato molto, ha funzionato e soprattutto, ci siamo divertiti. 

I corsi che ti consigliamo

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Digital Marketing Strategist – Executive Master

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8 Giugno 2020 0 commenti
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Fare carriera nel digitale

Meglio Marketing Specialist o Marketing Strategist?

by Edoardo Montesano 13 Maggio 2020
by Edoardo Montesano

Chi sono e cosa fanno i Marketing Specialist e i Marketing Strategist e qual è il loro ruolo in azienda.

Non è semplice affrontare un argomento che appare chiaro sulla carta, ma che presenta nella realtà di tante aziende diverse sfumature e interpretazioni pratiche. Ho deciso quindi che l’approccio migliore potesse essere quello di descriverti non solo chi dovrebbero essere i Marketing Specialist e chi invece i Marketing Strategist, ma anche di “calarti” nella realtà di Lacerba per dartene una visione più concreta. Questo spero ti aiuterà a comprendere meglio se e quale di queste strade possa rappresentare per te una valida opzione di carriera.

Ecco dunque il filo logico con cui procederemo, e ricordati, se questo contenuto ti sarà utile fammelo sapere con un like o, meglio ancora, un commento. 

  • Chi sono il Marketing Specialist e il Marketing Strategist?
  • Dove è più funzionale una figura piuttosto che l’altra?
  • Come lavora il Marketing a Lacerba
  • Il Team Marketing di Lacerba
  • Conclusioni e cosa ti consigliamo

Chi sono il Marketing Specialist e il Marketing Strategist?

I Marketing Specialist, come i SEO specialist, i SEM expert o il Social Media analyst sono figure altamente verticalizzate su un ambito molto specifico del marketing. Lavorano spesso a stretto contatto con i dati e sono specializzati nel prendere decisioni operative legate al loro ambito di competenza. Durante la loro carriera, oltre ad aggiornarsi continuamente sul canale presidiato, accumulano l’esperienza e la “malizia” che li rendono in grado di ottimizzare sempre meglio il proprio lavoro specifico.

Il Marketing Strategist di contro è una figura che riunisce più competenze diverse: in questo ambito si parla spesso di formazione a T, ovvero quei Marketers che possiedono una buona esperienza su una o due aree specifiche, ma che abbinano a questo delle nozioni più generali su differenti aspetti. Questa caratteristica li rende in grado di avere una visione strategica a 360°, coordinando e integrando i diversi canali. Ovviamente, il fatto di non focalizzarsi su specifiche aree li rende tecnicamente meno forti dei singoli specialist nelle loro materie, ma dall’altro lato della medaglia, conferisce loro una maggiore capacità di comprensione del perché, oltre del come, manovrare le leve a propria disposizione. In generale il Marketing Strategist, in aziende particolarmente strutturate, riveste quindi una funzione di coordinamento del team ed è responsabile per la messa in atto, il monitoraggio e l’analisi dell’intera strategia di Marketing.
Ma questa non è l’unica applicazione di questo ruolo, come vedremo tra poco. 

Dov’è più funzionale una figura piuttosto che l’altra?

La transizione da Marketing tradizionale a Digital Marketing in tutte le sue sottobranche ha portato inizialmente ad un’estrema specializzazione dei ruoli. In questo contesto i Marketing Specialist sono diventati figure essenziali e altamente ricercate principalmente nell’ambito consulenziale, dove, grazie alle loro competenze altamente verticali, riescono a venire incontro alle richieste specifiche del cliente. 

Il Marketing Strategist trova anch’esso spazio nel mondo della consulenza e non solo, come figura dirigenziale, ma specie nel panorama italiano che è costituito principalmente di piccole e medie imprese, costituisce una bellissima opzione di carriera per tutte quelle persone che vogliono lavorare anche a stretto contatto con il prodotto.

Non è infatti inusuale che in molte aziende questa figura ricopra, piuttosto che il ruolo di coordinatore, quello di One Band Man: molte imprese infatti non possono permettersi di sostenere i costi di un intero team di Specialist o di pagare un’agenzia di consulenza e preferiscono dunque assumere una figura strategica, che abbia una visione più ampia e che sia in grado di seguire tutti gli aspetti della strategia di Marketing di un business. Questo non permetterà loro di presidiare al massimo tutti i singoli canali, ma d’altro canto:

  • Renderà l’azienda in grado di testare più strade di vendita per trovare quella ottimale.
  • In caso di crescita, getterà le basi di un futuro team dedicato, dove gli specialist verranno selezionati in risposta a ciò che è stato dimostrato possa davvero essere utile all’azienda.

Ma veniamo a un caso reale. Come sai lavoro per Lacerba, una Startup innovativa. Nel resto di questo articolo ti racconterò di come organizziamo il nostro lavoro all’interno del team Marketing, quali sono i nostri ruoli e le competenze che abbiamo.  Ovviamente l’esperienza che ti riporto è relativa a una realtà piccola e dinamica. Se il tuo obiettivo è quello di diventare Marketing Specialist o Strategist per affacciarti al mondo della consulenza o di grandi aziende strutturate, mi sembra giusto avvertirti che non troverai input diretti in questo senso. Ti invito però a proseguire comunque nella lettura, per capire un punto di vista differente. 

Se invece ti affascina lavorare a stretto contatto con il prodotto e seguirlo lungo tutto il suo ciclo di vita, allora a maggior ragione…seguimi! 

Come lavora il Marketing a Lacerba

Alla base di come impostiamo il nostro lavoro a Lacerba ci sono due elementi fondamentali: 

Il primo è una strategia generale condivisa, che non riguarda solamente il team marketing, ma tutti i membri dell’organizzazione, dai programmatori fino al videomaker. Questa è la conditio sine qua non per poter integrare delle figure strategiche nel team.  Chiunque a Lacerba ha accesso all’Admin della piattaforma, attraverso cui può visionare tutti i KPI che per noi sono più importanti, come il numero di nuovi iscritti, i top corsi per iscrizioni, la percentuale di completamento delle lezioni o il fatturato generato.  Come se non bastasse tutti i membri del team ricevono una notifica email ogni volta che viene effettuato un nuovo acquisto. 

Questo approccio serve a far sì che ogni membro del team abbia il polso della situazione: se stiamo affrontando un momento difficile, può e deve essere consapevole della situazione. Se, al contrario, le cose vanno bene, ne siamo tutti egualmente responsabili e si esulta insieme. 

La Dashboard da Admin di Lacerba

Il secondo elemento è una gerarchia orizzontale in cui tutti partecipano al lavoro di tutti, aiutandosi a vicenda, ma al contempo ognuno è responsabile, o “Owner”, di una specifica area. Questa tipologia di organizzazione del lavoro snellisce i processi e il decision making e ha una funzione di empowerment per i membri del team, che vivono il proprio lavoro come un loro progetto personale in cui ingaggiarsi. 

Se ti interessa scoprire anche come viene messo in atto tutto il comparto strategico di Lacerba ti consiglio anche di leggere l’articolo del mio collega STARTUPSERIES 2 Le 4P del Marketing Mix di Lacerba.

Il Team Marketing di Lacerba

Il nostro team marketing si compone al momento di tre elementi full-time, che ricalcano appunto le caratteristiche del Digital Marketing Strategist: ci approcciamo al lavoro con un mindset aperto e adattivo, sappiamo mettere le mani su tutti gli aspetti fondamentali del marketing, ma nel tempo ci siamo progressivamente verticalizzati su determinati aspetti, quelli che rispecchiano meglio le nostre inclinazioni, talenti e in cui in ultima analisi performiamo meglio. 

Alex

Outbound Marketing Strategist

È stato il primo marketer ad entrare in Lacerba e durante gli early days della nostra azienda ricopriva proprio quel ruolo One Band Strategist di cui ti parlavo prima. Ad oggi si occupa principalmente di tutta la parte che concerne l’Outbound Marketing, ma non solo. A Lacerba è responsabile dell’implementazione di funnel strategici, cura le nostre campagne pubblicitarie sui canali social, ha ottimizzato il processo di assistenza agli studenti e gestisce tutta la parte di Email Marketing Automation. 

Edo 

Inbound Marketing Strategist

Sono stato il secondo ad entrare nel team marketing di Lacerba per affiancare Alex. Ho iniziato da dove partono molti marketers: produzione di contenuti e copy. Ad oggi sono responsabile di tutto ciò che concerne l’Inbound Marketing: dal Tone of Voice di Lacerba, alla produzione di contenuti sui nostri principali canali, come il blog su cui ti trovi ora, i profili social e il canale YouTube, fino all’analisi e scrittura SEO per le Landing page del sito. Inoltre curo tutta la parte di Direct Email Marketing, come newsletter e le email commerciali. 

Marco

Performance Marketing Strategist

Terzo in ordine cronologico è arrivato per supplire alle principali lacune mie e di Alex, con la sua confidenza con strumenti quali WordPress, Bootstrap e Adobe Illustrator. Ad oggi è responsabile di tutta la parte tecnica del nostro blog e nello specifico segue il nostro Executive Master in Digital Marketing Strategy, accompagnando l’utente lungo tutto il suo Customer Journey. Dopo che avete cliccato una Ad di Lacerba o un link sulla nostra pagina social, siete nelle sue mani. 

La suddivisione di queste ownership non comporta però, come ti dicevo prima, che ognuno lavora blindato solo sugli aspetti che lo riguardano in prima battuta. All’occorrenza siamo tutti in grado di scambiarci i ruoli e non è inusuale che Alex mandi una Dem al posto mio, io prenda una call dell’Executive Master e che Marco si occupi di una campagna Facebook al posto di Alex. Ci aiutiamo e ci interpoliamo a vicenda, ma quando ci muoviamo nell’ambito di responsabilità del collega seguiamo le linee guida che egli ha tracciato. 

Conclusioni e cosa ti consigliamo

Spero che questo articolo possa esserti stato d’aiuto per avere una visione più chiara di chi sono e cosa fanno il Marketing Specialist e il Marketing Strategist. Ovviamente queste definizioni sono molto sulla carta e conosco Marketing Specialist che hanno una visione estremamente strategica, come Marketing Strategist che invece sono molto focalizzati su un solo aspetto. 

Nell’articolo mi sono concentrati principalmente sulla figura del Digital Strategist perché è quella che più mi appartiene ed è l’approccio in cui crediamo a Lacerba.  Se ti interessi di Marketing e magari ambisci a lavorare o specializzarti in questo settore visita la pagina del nostro Master universitario per diventare Digital Marketing Strategist e richiedi maggiori informazioni, ti risponderà Marco, o io, o Alex. 🙂

13 Maggio 2020 0 commenti
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